Le mostre d’arte africana allestite nelle maggiori città europee durante la stagione primonovecentesca, non erano certamente nate per celebrare un gusto pericolosamente esotico, ritenuto anzi primitivo e, qualche volta, perfino inferiore rispetto all’espressione civilizzata della società occidentale. Ma l’arte, si sa, non sempre può vestire i panni di un comodo animale da compagnia, anzi non dovrebbe mai.
Davanti agli occhi di artisti come Picasso, Matisse, Cézanne, Braque, Modigliani, Derain, Klee, Ernst, Brancusi, Carrà e molti altri, queste mostre, inizialmente nate per orientare il gusto dell’opinione pubblica verso scelte politicamente più comode, finirono per svelare impulsi tra i più primordiali: l’arte africana era riuscita a toccare le corde più profonde della sensibilità dei più grandi artisti dell’epoca; nasceva una nuova stagione, le domande a cui l’arte tentava di dare una risposta erano sempre le stesse, cambiava la prospettiva, fatta di pura espressione, di sintesi formale, di magia.
Furono tanti i movimenti artistici influenzati da quest’improvvisa ondata di novità che ormai dilagava in maniera felicemente incontrollata, tingendo le più nordiche tele del movimento Die Brucke di atmosfere cupe, drammaticamente e magicamente esistenziali, infondendo una vera e propria forza primordiale nelle sintetiche espressioni fauves e firmando con segmenti tra i più geometrici e prospettive tra le più scomposte i capolavori dell’arte cubista. Al di là di qualsiasi movimento artistico, l’arte africana esercitò il suo oscuro fascino su singoli artisti, da Brancusi a Modigliani sono innumerevoli le influenze e straordinario il risultato.
Quale storia si celava dietro queste tanto irresitibili maschere tribali? Perché gli artisti del primo ‘900 le trovavano così tanto imprescindibili per iniziare a costruire un percorso formale che partisse dall’interiorità, dalla ricerca di sé, dall’esistenza innanzi tutto?
Nella cultura africana subsahariana la maschera è da sempre stata ritenuta un oggetto sacro dietro cui si celava una vera e propria spiritualità, il suo uso era strettamente legato a riti religiosi e danze propiziatorie, non tutti potevano indossare la maschera all’interno della tribù e solo in pochi riuscivano a realizzarne una: era, ed è tuttora, una vera e propria arte tramandata da padre in figlio e indicatrice del riconoscimento d’appartenenza ad uno status sociale, fondamentale in una realtà fortemente gerarchizzata come quella africana.
È attraverso la maschera che l’uomo abbandona la sua vera identità, accettando di lasciarsi attraversare, per antiche gestualità che si esprimono in una danza segnica, dallo spirito identificato in quei tratti tanto più stilizzati quanto meno vicina al mondo umano è la natura dell’entità rappresentata.
La maschera è il ritorno ad uno stato originario, chi la indossa si fa medium e tutor dei suoi compagni di tribù, li accompagna attraverso una via che percorre tutti i sensi umani, in una sinestesia di colori, suoni, profumi e grida quasi animalesche: è la liberazione dai dolori umani, la ricerca di una pace, piuttosto che della cruda verità, l’occasione di un incontro con la natura, gli spiriti degli antenati, o dei la cui autorità è indiscutibile. Lo stesso bisogno che, in seguito ad un’accidentale caduta dalla bicicletta, spinge un bambino tra le braccia dei suoi nonni, governa, qui, le necessità e i riti sacri di popoli che avevano intuito l’esistenza dell’altro da sé e dello stato di subconscio, ancora prima che, in Europa, il Dr. Freud facesse oscillare il suo pendolo davanti agli occhi smarriti dei suoi pazienti.
Se è vero che, parlando di questi antichi riti, qualcuno potrebbe notare un’analogia con alcune forme di espressione teatrale, allora sarà altrettanto doverosa un’attenzione posta all’osservazione di queste maschere dal punto di vista stilistico.
Esiste una varietà molto vasta di esemplari. Ogni popolazione africana ha le sue maschere, riconducibili quasi sempre a entità tra le più diverse: alcune maschere rappresentano lo spirito di qualche animale feroce della foresta, la preghiera in questo caso è rivolta al bisogno di protezione piuttosto che alla necessità di acquisirne le doti, come il coraggio del leone o la forza del bufalo; altre maschere rappresentano la forma di un teschio umano e sono solitamente legate al culto degli antenati, i cui tratti fortemente stilizzati permettono di trasmettere un’idea facilmente intuibile attraverso la diversa morfologia segnica:
– linee spezzate per simboleggiare il percorso difficile e tortuoso segnato dagli antenati, ma al contempo la speranza nel successo;
– pattern a scacchiera per intendere la contrapposizione tra elementi antitetici ma complementari come il giorno e la notte, il maschio e la femmina, il bene e il male;
– occhi socchiusi simboleggiano la pace interiore e l’autocontrollo e la fronte sporgente è simbolo di saggezza; l’umiltà è rappresentata da occhi e bocca piccoli e l’autorevole forza da mento e bocca grandi.
Le maschere più astratte sono quelle che rappresentano gli spiriti volanti della foresta, laddove, in mancanza della materialità del referente, l’astrattismo puramente geometrico sembra l’unica soluzione possibile.
I materiali comunemente utilizzati per la realizzazione di queste maschere sono assolutamente naturali: legno, pietra saponaria o pelle e tessuto, in alcuni casi. Perfino il processo di colorazione ricade sempre su scelte del tutto naturali: vengono utilizzate esclusivamente ocre, carbone vegetale o altri elementi, per lo più di origine naturale.
La struttura delle maschere può variare in riferimento al modo in cui si devono indossare. Il tipo più comune, presente in gran parte dell’Africa, è quello che si appoggia sul viso, in verticale, come la maggior parte delle maschere occidentali. Altre maschere si appoggiano sulla testa, e quindi non coprono il volto.
In occidente, agli inizi del XX secolo, era possibile vederle attaccate al chiodo di qualche parete, ben lontano dalla dimensione dentro cui avevano preso forma, lontano dall’uso per il quale erano state pensate e realizzate con doverosa maestria. Gli unici luoghi nei quali era ancora possibile scorgerle in vita erano le intense tele di Pablo Picasso, dove i corpi nudi di donna portavano, con orgoglio, un volto vestito della magia di una maschera o le spaziali sculture di Brancusi e, poi, di Modigliani, dove il profumo speziato delle maschere in legno africane trovava posa nello statico ricordo dell’antico Egitto. Perfino una mente geniale come quella di Einstein fu colpita dal fascino dell’espressione africana, del 1915 è il suo libro Scultura negra, dove si può leggere:
“[…]Alcuni se ne servivano per esemplificare un falso concetto di primitività, altri rivestivano quest’oggetto senza difesa con frasi false, parlavano di popoli venuti dalla profondità dei tempi, e cose simili. Si sperava di rintracciare nell’africano una testimonianza delle origini, di uno stato che non si era mai evoluto. La maggior parte delle opinioni espresse sugli africani si fonda su tali pregiudizi formulati per giustificare una comoda teoria. Nei suoi giudizi sui negri l’europeo rivendica un postulato, ossia quello di una sua superiorità assoluta, del tutto irrealistico “.
Alla fine di tutta questa storia non si capisce bene chi abbia conquistato cosa. Rimane la certezza della parabola descritta da un boomerang che, seppur strappato al suo padrone, passando per le mani del conquistatore, è tornato alla sua terra: è la storia di valori che tornano a casa, dovunque siano, parlando sempre un’antica lingua.
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