La stagione lirica del Teatro Verdi sta per congedarsi dal suo pubblico e lo fa con un’opera che a Pisa non viene rappresentata da più di quarant’anni: il Mefistofele di Arrigo Boito, in scena venerdì 18 marzo alle 20,30 e domenica 20 alle 16. L’occasione è preziosa non solo per assistere al ritorno sulle tavole del Verdi del capolavoro di Boito, ma soprattutto per apprezzare un titolo che sempre più raramente trova spazio nel cartellone dei teatri d’opera a causa degli elevati costi dell’allestimento, dell’alta professionalità dei cantanti coinvolti e della presenza di un coro di proporzioni ragguardevoli (quello impiegato nell’allestimento pisano sarà di duecentocinquanta persone).
A parte la spettacolarità di alcune scene, cosa rende Mefistofele tanto affascinante? Il fatto che si tratta di una delle più emozionanti sfide mai tentate in campo operistico: condensare in un melodramma tutto il Faust di Goethe. Un’impresa del genere non era mai stata tentata prima. Certo, Faust ha avuto molti adattamenti musicali, come la Damnation de Faust di Hector Berlioz o il Faust di Charles Gounod, ma mai nessuno aveva tentato di trasporre in musica il capolavoro di Goethe, innanzitutto per la lunghezza del testo e per la densità dei concetti da esso espressi. L’impresa era titanica eppure Boito, poeta finissimo e grande uomo di teatro, seppe come eliminare gli ostacoli più pericolosi: rese l’intreccio più semplice, la trama più fluida ed eliminò diverse parti del testo originale (sarebbe stato impossibile trasportare integralmente il Faust nel mondo dell’opera).
Nella prima versione di Mefistofele, Boito articolò il dramma in cinque atti e un intermezzo sinfonico-descrittivo tra il primo e il secondo atto; in questa versione si mescolarono il testo di Goethe e le personali prese di posizione di Boito (per esempio, un fervente anti-cattolicismo e altri elementi cari alla Scapigliatura, di cui Boito era membro), cosa che spinse il compositore a pubblicare alcune settimane prima della prémiére il libretto dell’opera contenente un suo commento esplicativo: lì chiarisce e spiega i passaggi più oscuri per il pubblico milanese.
Nonostante le cautele, l’accortezza nella stesura del libretto e il gigantesco lancio pubblicitario, il 5 marzo 1868, la prima di Mefistofele al Teatro alla Scala, diretta dallo stesso Arrigo Boito, fu un memorabile fiasco: l’eccessiva densità del libretto (ricco di discettazioni filosofiche, teologiche e morali) e la distanza dello spettacolo dal melodramma vero e proprio causarono una rivolta da parte del pubblico; la spaventosa lunghezza dell’opera – quasi sei ore – mise k.o. anche i più agguerriti melomani.
Un insuccesso di questo tipo avrebbe fatto desistere molti musicisti, ma Boito non si piegò: fermamente convinto che il Mefistofele avrebbe rinnovato il melodramma italiano, raccolse questa sfida e rimaneggiò pesantemente la partitura e il libretto originali; smussò le proprie posizioni, modificò (o cancellò) le parti maggiormente contestate, eliminò le erudite dissertazioni e tutto ciò che rallentava l’azione scenica (in particolare il primo quadro all’Atto IV e l’intermezzo sinfonico-descrittivo) per rendere il melodramma più omogeneo e contenuto nei tempi senza, tuttavia, fargli perdere lo spiccato carattere di “opera avvenirisitica”. Oltre agli impietosi tagli, Boito apportò altre rilevanti modifiche, trasformando Faust da baritono in un più convenzionale tenore. In questo modo, per usare le parole dello storico della musica Michele Girardi, «il codice del melodramma tornò a parlare più chiaramente al pubblico, informandolo che l’eroe agisce per amore del soprano […] e non della conoscenza».
Insomma, Boito riuscì a trasformare il suo irruente e scapigliato Mefistofele in un melodramma moderno ma più vicino al pubblico del suo tempo: il debutto della seconda versione al Comunale di Bologna il 4 agosto 1875 segnò la risurrezione di Mefistofele e il suo ingresso stabile nel repertorio operistico. A onor del vero, il lavoro di Boito non si concluse neanche qua perché continuò a modificare – seppur in modo sempre più lieve – la propria opera in base alle critiche ricevute: dopo l’allestimento bolognese Boito eliminò un lungo recitativo dell’Atto I, modificò pesantemente l’aria L’altra notte in fondo al mar e l’Atto V (che divenne l’attuale Epilogo); altre modifiche vennero apportate per la rappresentazione veneziana del 1876, sempre nell’ottica della sfida ingaggiata con il pubblico nel 1868 e nella caparbia volontà di vincerla.
Viene spontaneo chiedersi se con tutte queste revisioni e rimaneggiamenti, Boito riuscì a mantenere lo spirito del primo Mefistofele, innovativo ed avveniristico. Per rispondere basta guardare la struttura dell’opera, che nella storia del melodramma non presenta eguali, cominciando proprio dal Prologo sinfonico-corale. Inoltre Boito, come già Verdi dai tempi di Rigoletto, punta al superamento delle forme tipiche dell’opera italiana (i cosiddetti numeri chiusi): questo non vuol dire che non ce ne siano nel corso dell’opera, ma che Boito preferisce delle forme aperte così da poter presentare uno spettacolo di ampio respiro in cui drammaturgia e musica sono fusi assieme, come nelle opere di Richard Wagner. Ancora, il compositore ha avuto l’astuzia di seguire le orme di Wagner e Verdi, decidendo di presentare i numeri chiusi in modo inconsueto; il celeberrimo Dai campi, dai prati ne è un chiaro esempio: si tratta palesemente di una romanza ma talmente distante dalla romanza canonica nello spirito, che può benissimo essere scambiata per una forma completamente nuova. Ed è proprio questa l’intelligenza di Boito, avvicinare il pubblico con forme consuete ma profondamente rinnovate. Un’altra innovazione di grande importanza è l’uso di alcuni temi in forma di reminiscenza: a differenza di Wagner, Boito non utilizzò la tecnica del leitmotiv; preferì ricorrere a brevi temi portanti che ritornano in alcuni momenti del melodramma che assumono un significato narrativo. Boito per sottolineare certe sensazioni o avvenimenti accosta a situazioni particolari uno di questi temi chiave: l’Ave, Signor cantato dalle Falangi Celesti nel Prologo, per esempio, riappare nel momento della salvezza di Faust. Oppure la melodia che canta Faust per spingere Margherita all’amore.
Questa torna nella scena del Sabba classico, squarciandolo con luce angelica, e nella scena in cui Faust va in carcere.
Un uso particolare di questi temi-chiave si ha con il personaggio di Mefistofele: Boito spiegò che nelle vecchie leggende Mefistofele è sempre annunciato da un tintinnio di sonagli. Per evidenziare questo “tintinnio”, Boito usa una particolare figurazione ritmica che compare quando Mefistofele entra in scena o si fa un riferimento a lui (similmente al Macbeth di Verdi in cui le streghe sono annunciate da un ritmo simile al tintinnare di sonagli): in questo modo Mefistofele viene smascherato quando compare travestito da frate grigio o da cavaliere, diviene l’accompagnamento della cabaletta Fin da stanotte, nell’orge ghiotte e diviene uno degli elementi portanti del Sabba. Soprattutto in quest’ultima occasione acquista un carattere particolare, in bilico tra il drammatico e l’ironico (appunto, mefistofelico).
Con la stessa perizia Boito inserì nella partitura diverse citazioni: dal tema dell’Andante con variazioni della Sonata a Kreutzer di Beethoven, al tema dei congiurati del Ballo in maschera di Verdi, alle quinte vuote del Mefisto Valzer n.1 di Liszt. Oltre a rivelare la passione di Boito per il citazionismo, questi piccoli excerpta sono inseriti non come passivo ornamento ma anche come commento attivo alla scena (per esempio, il passaggio del diabolico Mefisto Valzer si trova all’interno del Sabba). Inoltre bisogna osservare che queste citazioni, oggi perfettamente individuabili, non erano affatto ovvi per il pubblico del 1875; anzi, probabilmente solo i musicisti riuscirono a riconoscerli. Forse Boito, dopo aver dovuto sopportare i fischi della prima scaligera, volle gettare il proprio guanto di sfida al pubblico, spesso di levatura troppo bassa per giudicare.
Luca Fialdini
lfmusica@yahoo.com
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