Mosè in Egitto, la voce del Rossini serio

PISA – Dopo il successo del Rossini comico con L’Italiana in Algeri andata in scena lo scorso marzo, il Teatro Verdi di Pisa torna a omaggiare il Cigno di Pesaro nel centocinquantesimo anniversario della morte, stavolta con uno dei suoi capolavori seri: l’azione tragico-sacra Mosè in Egitto. L’opera – di cui ricorre il bicentenario – è la seconda del cartellone pisano, una coproduzione firmata dal Teatro Verdi assieme al Teatro Coccia di Novara, la Fondazione Haydn di Bolzano e l’Opéra Théâtre de Metz Métropole, e ha suscitato grande entusiasmo da parte del pubblico, tanto da far registrare per entrambe le recite quasi il tutto esaurito. 

Con Mosè in Egitto il Teatro Verdi chiude i festeggiamenti per il centocinquantenario rossiniano, uscendo dai soliti cliché per quanto concerne la musica del Pesarese (come lo stesso Mosè dimostra, esiste di meglio del Barbiere di Siviglia) e racchiudendo in due stagioni contigue la voce comica e quella seria di Gioacchino Rossini. A questo, naturalmente, va aggiunto l’excursus del Guglielmo Tell all’interno del Concerto di Gala per i centocinquant’anni del Verdi.
La rappresentazione di venerdì 9 novembre è stata preceduta dai saluti istituzionali da parte del Presidente uscente della Fondazione Teatro di Pisa Giuseppe Toscano e del sindaco di Pisa Michele Conti, che hanno salutato l’opera come una seconda “prima di stagione”, dato che la precedente The Beggar’s Opera non è un’effettiva opera lirica. Nel corso del breve intervento, il Presidente Toscano ha sottolineato come il suo fosse allo stesso tempo un benvenuto e un congedo, avendo rassegnato le dimissioni in vista di futuri incarichi, incompatibili colla posizione di Presidente della Fondazione Teatro di Pisa. 

Si può ben dire che il Verdi abbia deciso di imbarcarsi in un’impresa non certo di poco conto decidendo di portare in scena la grande opera-oratorio di Rossini: monolitica, corale, cupa e maestosa, assai diversa dalle ordinarie proposte in ambito rossiniano e assolutamente travolgente. Il fatto che sia stata composta per essere rappresentata nel corso della Quaresima 1818 ha spinto il compositore a adottare una forma ibrida tra l’oratorio e il melodramma, una scelta che allo spettatore moderno non può che sembrare vincente: i recitativi vengono ridotti all’osso e questo cagiona grande coesione nella drammaturgia, che appunto risulta decisamente più compatta rispetto ad altre opere coeve, inoltre l’austerità del soggetto e del periodo di rappresentazione della prima hanno guidato la penna di Rossini verso una scrittura sobria e matura, senza tanti orpelli, estremamente suggestiva.
Di grande effetto l’incipit del melodramma, ambientato durante la nona piaga d’Egitto, quella delle Tenebre: è in questo contesto – oscuro e percorso da timori – che si è alzato il sipario sulla monumentale scenografia che con pochi elementi riesce a trasmettere efficacemente l’impressione di un Egitto grandioso ma in grave ambascia e decadenza. Oltre che per l’eleganza, le scene e costumi di Josè Yaque Valentina Bressann si segnalano per essere stati realizzati interamente con rifiuti industriali recuperati e lavorati dall’Officina SCART® di Waste Recycling, un progetto sperimentale nato nel 2015 a seguito di una convenzione firmata dalla Waste Recycling, dall’Accademia di Belle Arti di Firenze e al Comune di Santa Croce sull’Arno per trasformare in materiale artistico gli scarti di lavorazione provenienti da numerosi cicli produttivi. 

Quello firmato dal regista Lorenzo Maria Mucci è quindi un Mosè ambiguo: indubbiamente contemporaneo, per la tematica sottolineata dai materiali e dalle tecniche impiegate per realizzare costumi e scene, ma anche tradizionale in quanto l’Egitto è esattamente l’Egitto dei Faraoni, sul palco passano in rassegna lancieri con il caratteristico gonnellino e i reali che indossano il Khepresh. Si tratta di un perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione: il teatro non può rimanere cristallizzato alle messe in scena nel 1940, deve avere la possibilità di parlare ancora della contemporaneità, e la soluzione adottata da Mucci è un’ottima soluzione al quesito. Anzi, la commistione di elementi “moderni” e tradizionali è uno dei tratti distintivi del regista pisano che ha in esso individuato un geniale linguaggio per parlare con il pubblico e stimolarlo e pungerlo e spingerlo a una riflessione non solo sui temi trasversali che animano i titoli d’opera ma anche sulla loro trasposizione nel mondo reale, una caratteristica che si adatta splendidamente al Mosè in Egitto in relazione con i nostri tempi. 
Splendido il disegno luci di Michele Della Mea, chiarificatore di molte situazioni emotive, così come le videoproiezioni a cura dell’Imaginarium Creative Studio: mai invadenti o eccessive, sempre ben misurate e di sicuro effetto.

Uno dei punti di forza dell’opera è la sua costruzione corale, colle numerose e possenti scene d’assieme, in cui la difficoltà maggiore – tanto per il regista quanto per i cantanti – è garantire continua omogeneità all’insieme pur riuscendo a far emergere i singoli caratteri. In questo contesto la mano invisibile di Mucci, colla consueta grazia, ha saputo muoversi in modo impeccabile, traendo il massimo risultato dall’affiatato cast e riuscendo a rendere ogni personaggio indispensabile indipendentemente dallo spessore del ruolo. In scena non c’è baccano o tramestio, piuttosto una grande compattezza e solennità, quasi, appunto da oratorio. Ecco che anche Mambre risulta una tessera indispensabile del complesso mosaico rossiniano, personaggio sicuramente marginale ma che il tenore Marco Mustaro ha caratterizzato con buon effetto. 

Diverso è il discorso per quanto concerne Aronne: pur non essendo un personaggio particolarmente presente in scena, ha un eccezionale peso psicologico e le sue apparizioni ne risentono inevitabilmente. La complessità della questione grava tutta sulle spalle del tenore Matteo Roma, che ha deciso di sfoderare un Aronne granitico nella sua unitarietà, senza tanti patetismi. Più ambiguo, ma non approfondito a sufficienza dal librettista Tottola, il personaggio di Osiride, figlio del Faraone e pretesto per un qualche tipico gioco da melodramma italiano con la nipote di Mosè Elcìa, una sotto-trama amorosa condita con i soliti equivoci e inganni calcata in un contesto tanto maggiore e nobile che – per fortuna – non risultarne scalfito. I due sfortunati amanti sono stati portati sulle tavole del Verdi rispettivamente dagli ottimi Ruzil Gatin Natalia Gavrilan che sono riusciti a trasformare i due caratteri pretestuosi in entità carismatiche, sfruttando al meglio il grande spazio che Rossini concede loro (davvero interessante il pianto di Elcìa al termine del secondo atto: «È spento il caro bene! L’oggetto del mio cor!»).
Pur avendo uno spazio solistico piuttosto circoscritto, il mezzosoprano Ilaria Ribezzi ha fornito un’avvincente interpretazione di Amenofi, col suo bel timbro morbido e corposo, di mirabile pulizia e precisione soprattutto nei  lunghi passaggi per terze.

Nell’economia dell’opera ha – ovviamente – ampio respiro la parte del protagonista eponimo, che qui ha le fattezze e la voce del basso Federico Sacchi. Un Mosè certamente nobile e fiero, dalla cui voce pastosa si ode il timbro adirato del Dio d’Israele, il freddo passo dell’Angelo che miete i primogeniti dell’Egitto, ma anche la supplica antica del popolo errante. Altrettanto fiero il Faraone antagonista: il basso Alessandro Abis è totalmente a suo agio nei panni di questo personaggio certamente di grande fascino ma sempre incerto nell’atteggiamento verso gli schiavi ebrei (fino al tragico arcinoto epilogo), una dicotomia che Abis esalta magistralmente e la sua formidabile presenza scenica lo pone al centro di ogni scena in cui appaia. Ultima, ma non ultima, la formidabile Silvia Dalla Benetta: la sua Amaltea, sposa del Faraone, risulta indubbiamente il personaggio in cui caratterizzazione e ars canora raggiungono l’acme, tanto da mietere ampi applausi a scena aperta anche prima dell’effettiva fine del numero musicale. In una vicenda di re e divinità, la sua Amaltea ha brillato per umanità.

In tutto questo è impossibile dimenticare il fondamentale apporto del Coro Ars Lyrica diretto dal M° Marco Bargagna. In un’opera che è sostanzialmente antesignana del Nabucco di Verdi, il coro non può che essere uno dei pilastri dell’impianto drammaturgico e l’Ars Lyrica ha saputo essere all’altezza della situazione, una presenza solida, vigorosa e arcaica, risultando complementare all’Orchestra della Toscana (qui davvero in stato di grazia) diretta dal M° Francesco Pasqualetti. Pasqualetti si è dimostrato una volta di più specialista e raffinato interprete del repertorio italiano del primo Ottocento, fornendo una lettura asciutta e affascinante del difficile capolavoro rossiniano. Coraggiosa ma appropriata la scelta di aggiungere alcuni effetti non indicati in partitura, come gli archi al ponticello, in alcuni punti strategici dell’opera per rendere al meglio un particolare colore o una determinata sensazione voluti dal compositore. Nella direzione di Pasqualetti i colori vengono spinti all’estremo limite, rendendoli vitali e brillanti, tempestosi e sanguigni, togliendo dalla partitura del Mosè la polvere del tempo fino a restituire a Rossini il suo innato splendore.

Photocredit: Imaginarium Creative Studio.

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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