Chi conosce la fotografia di Nan Goldin sa perfettamente quanto riesca a non passare inosservata. Il suo lavoro più celebre è sicuramente The ballad of sexual dipendency. Il titolo è liberamente ispirato all’opera di Bertold Brecht e Kurt Weil. 700 scatti in 35 millimetri realizzati tra il 1970 e il 2004.
Per comprendere appieno questo progetto bisogna capire cosa significa fotografare per Nan. Il suo rapporto con la macchina fotografica ha inizio da giovanissima, con un evento luttuoso: la morte della sorella. Il mezzo fotografico le permette di catturare ciò che sfugge, di non perdere la quotidianità, di colmare un vuoto viscerale e esistenziale. I ritratti di Nan hanno infatti la particolarità di voler esplorare l’intimità di amici e conoscenti. La sua fotografia è soprattutto incentrata sulla quotidianità, anche là dove si rappresentano atteggiamenti e costumi al di là dei costumi dell’epoca. Nan Goldin mostra l’intimità, la quotidianità di amici eterosessuali e omosessuali, seguendoli nel loro percorso, nei loro attimi. Non c’è niente di rubato nei suoi scatti, essi sono accuratamente elaborati con i soggetti, pur sembrando del tutto casuali.
The ballad of sexual dipendency parla delle diverse reazioni affettive. Il sesso diviene l’elemento centrale, specchio della relazione e dei personaggi. Il rapporto sessuale genera una catarsi tra piacere e dolore, unisce tristezza ed euforia, potenza e caducità dell’attimo. Rappresenta perfettamente l’anima dei suoi personaggi. Questi divorano e si divorano. Celebre l’autoritratto di Nan pestata dall’ex fidanzato. Ma oltre al mondo dei suoi affetti, la fotografa statunitense rappresenta anche la memoria di quel periodo storico della fine degli anni 70, quando l’abuso di eroina aveva portato alla diffusione dell’Aids, ai pregiudizi sugli omosessuali. Nan insegna a guardare i suoi personaggi nella loro fragilità, tra il dolore e la passione, la tristezza e l’euforia ma soprattutto nella loro umanità.
Francesca Lampredi
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