Il fenomeno anni Novanta per eccellenza è la rave music, che dalla Gran Bretagna e dalla città industriali di Chicago e Detroit è riuscito a diffondersi anche in Italia, in particolare a Roma e Milano: viene ricordato come l’ultima vera contro cultura musicale. In questa prima puntata lo ricostruiremo dalla nascita fino agli inizi del ventunesimo secolo.
L’origine del rave
Il termine “rave” risale al dialetto scozzese del 1300, e indicava un particolare stato d’animo entusiasmato, esaltato e delirante. Nella cultura comune odierna il termine rave è passato sempre sotto la lente del giudizio, «fare un rave party» presuppone trovarsi in una situazione di caos completo dove le protagoniste assolute sono le droghe sintetiche come ecstasy e MdMa. In parte questa visione è decisamente realistica, anche perché ai rave l’uso delle droghe è una cosa abbastanza comune, ma il fenomeno non si esaurisce solamente in questa caratteristica.
L’origine del rave e della musica ad esso correlata, visto come fenomeno scatenato da forti contestazioni politiche, disagi sociali ed economici, va ricercato alla fine degli anni ’70 nelle sperimentazioni sonore che si verificarono a Londra, a Chicago e Detroit. I germi della rivoluzione musicale che si attuò nella scena rave vanno rintracciati già negli anni ’70 nei party edonisti che David Mancuso organizzava a Broadway: queste feste private si rivolgevano prevalentemente a un pubblico afroamericano e omosessuale; ed erano momenti di incontro, abbandono sciamanico alla musica dei deejay e sperimentazione artistica. Negli anni successivi il fenomeno di ricerca sonora si ampliò, nacquero nuovi locali (Studio 54, Trocadero Transfer, End Up) e i djs iniziarono a prendere sempre più piede come figure di riferimento nella creazione di nuovi stili. Chicago vide la nascita della musica house e Detroit, più legata al synth pop portò invece la musica techno fatta di tonalità più fredde ed elettroniche. Negli States e in Inghilterra si ballava per esorcizzare razzismo, repressione e proibizionismi, e per arginare la durezza tatcheriana, alla ricerca di nuovi valori e nuove libertà giovanili.
A generare terreno fertile per i rave furono anche tutti i free festival inglesi (legali e illegali segnati dalle persecuzioni della Tatcher) che dalla fine degli anni ’70 recuperarono la visione pacifista e antibellica della generazione precedente, dando vita al movimento dei traveller, il cui punto di riferimento fu il free festival di Stonehenge che riunì vecchi fricchettoni, punk e nuovi adepti. Mancava solo una cosa per poter arrivare ai rave: sostituire la musica elettronica al rock. E la trasformazione non ci mise molto ad arrivare.
Superata l’ondata della new wave e pop edonista, alla fine degli anni ’80 in Inghilterra iniziò a manifestarsi una nuova tendenza. Nuove droghe provenienti da Ibiza iniziarono a circolare nei pochi club che passavano ancora musica house e dall’Hacienda di Tony Wilson iniziò a propagarsi una nuova psichedelia che voleva recuperare le radici hippy anni ’60: la Acid House e il Madchester sound che vide gli Happy Mondays come paladini. Questo nuovo genere dilagò in pochissimo tempo diventando la prima scena rave a livello internazionale: la sua etica era aperta e universalmente inclusiva, cosa che non si era mai vista prima nelle precedenti contro culture. Tutti ballavano la stessa musica, e prendevano le stesse droghe, hippy, punk, colletti bianchi, attivisti, hoolingans e cos’ via; e il messaggio divulgato suonava così: «La società non esiste, siamo noi a crearla da zero partecipando tutti insieme contro il moralismo».
La filosofia rave dell’altrove e dell’oltre
Hakim Bey (pseudonimo per Peter Lamborn Wilson) fu il filosofo che spianò la strada al movimento rave con i suoi scritti contenuti in TAZ, Zone Temporaneamente Autonome, un testo del 1990. Bey si soffermava sull’importanza della libertà delle zone di comunicazione, offrendo una visione post-situazionista a cui affiancava pratiche artistiche di azione diretta per scardinare gli organismi di controllo di una società materiale che fagocitava l’individualità e le emozioni. Profetico e radicale Bay considerava la TAZ come una guerriglia silente che avrebbe distrutto le convenzioni sociali per poi riformare una nuova società in un nuovo luogo e in un nuovo tempo. Al servizio del nuovo mondo ci sarebbero state la rete e della tecnologia come mezzi d’informazione volti a creare una società cibernetica caratterizzata da rapporti orizzontali. Bey sentiva la necessità di riformare tutto, anche la musica, abbandonando l’egemonia dei ritmi house e techno in 4/4 e 2/4 per arrivare a qualcosa di nuovo e folle che poteva affermare vitalità e rivoluzione.
La filosofia rave si ispirò molto a queste riflessioni teoriche e presto si concretizzò in una ricerca di un altrove momentaneo che si poteva manifestare solo ai grandi party illegali londinesi. I raver predicavano uguaglianza nelle diversità, al di fuori della politica tradizionale, autoproduzione come concetto di massa al pari del punk (dalla produzione stessa della musica alla creazione di una vera e propria microeconomia alternativa); ricerca di una consapevolezza comune, grazie alla condivisione di conoscenze con un uso creativo e sovversivo della tecnologia, e attaccavano le forme di produzione commerciale consumistica. I djs erano visti come sciamani di un rito collettivo in cui la creazione spettava al pubblico danzante, approcciavano con empatia gli stati alterati di coscienza e predicavano l’occupazione di spazi abbandonati delle grandi città e la loro autogestione temporanea.
Rave in Italia
Essere rave diventò presto una specie di religione dionisiaca: le grandi feste organizzate in capannoni occupati sperduti per le campagne erano un ritrovo di una comunità che ballava a ritmo di beat di musica nera, drum ‘n bass, trance e techno. I djs venivano dall’oltre Manica e iniziarono a portare la loro musica nel nostro paese sotto forma di sound system (impianti viaggianti spesso auto-costruiti per feste all’aperto con dj e gruppi dub). In Italia alla fine degli anni ’80, dove la situazione era decisamente più frammentata e politicamente agitata, il rave ebbe più difficoltà ad affermarsi: i rave vissero momenti confusi e come il punk arrivarono più tardi diffondendosi nei centri sociali tra le nuove generazioni, sebbene con diffidenza. La techno e l’elettronica erano ancora viste come la musica dei “fascisti” e dei paninari e per questo associate alla classe consumista.
Le prime feste che si consideravano rave erano party legali nelle discoteche che avevano poco a che fare con l’eredità free britannica: a Roma alla fine degli anni ’80 impazzava la techno e le feste denominate “rave” (Bresaola Rave, The Rose Rave, Sottantreno Rave) richiamavano la fascia “nazistoide” dei giovani discotecari romani, o giovani annoiati dalla classifica del Festival Bar, quello che è un po’ rimasto nell’immaginario collettivo del rave nostrano. Ma non si parlava di eventi segreti, anzi, la loro struttura era decisamente commerciale. Lo stesso accadeva a Rimini dove le feste erano solo volte al puro consumismo turistico assorbendo solamente la forma della contro cultura, privata del contenuto.
Il rave illegale arrivò molto più tardi in Italia, circa nel 1993-94, tramite i sound system britannici con gruppi come Spiral Tribe, Plus8, Oqp, Lego, Mononom e Mutoid, invadendo i centri sociali dominati ancora da punk cresciuti e diffidenti. Il Virus, Breda Occupata, l’Antimuzak front, Vaiano Valle di Milano, il Link di Bologna, lo Spaziokamino e il Forte Prenestino di Roma videro passare nelle loro mura migliaia di ravers e djs sia inglesi (il giovane Aphex Twin) che italiani (Dj War, Marco e Fabrizio D’Arcangelo), ed eventi come il Crossover del 1994 a Roma sancirono la diffusione delle feste segrete. Per questi party (che spesso prendevano vita anche in strada) esistevano dei codici di divulgazione ben definiti, come una caccia al tesoro. Tutto partiva da un flyer con immagini cyber e psichedeliche e poi gradualmente le informazioni passavano di bocca in bocca o attraverso la prima rete internet, in modo segreto fino al disvelamento finale del luogo della festa. Fare un rave voleva dire occupare uno spazio, compiere un’illegalità, ma allo stesso tempo ciò veniva visto come un gesto rivoluzionario che rovesciava lo stato delle cose. Gli eventi duravano 24 ore circa e si ballava tutta la notte. C’era chi usava droghe e chi no, ma lo scopo principale era ricreare un’atmosfera diversa da quella del mondo reale tramite la musica e le istallazioni scultoree e visive. Partecipare al rave voleva dire annullarsi nel godimento puro delle sperimentazioni musicali, annullarsi nella folla, totalmente diverso a ciò che accadeva nelle discoteche dell’epoca. Era una specie di percorso iniziatico, dionisiaco, privo di costrizioni e blocchi mentali, si andava oltre lo stato di coscienza per fruire e toccare con mano nuovi ritmi e nuove musiche. I djs passavano acid, jungle, drum ‘n bass, dub, techno mixata, i sottogeneri erano tantissimi, prendendo spunti anche dai ritmi di taranta; essi si fondevano anche in una stessa serata, e quello che si ascoltava era fruibile solo per quel momento. La musica sembrava crearsi attraverso il suo pubblico in un’esperienza oltre il reale che riuscì ad andare avanti con coerenza fino al 1999-2000… (Continua)
Virginia Villo Monteverdi
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La scena dei rave romani descritta in questo articolo è completamente falsa ed inattendibile. Prima di scrivere bisognerebbe documentarsi.
Grazie
Assurdo… ma in che libro delle favole hai letto queste cose? La scena romana dei primi anni 90 vanta una lista di dj fondamentale per la musica elettronica… i rave illegali dal 94 in poi sono solo il rimasuglio di questa cosa… un rimasuglio super politicizzato… se veramente tu avessi vissuto tutte quelle esperienze non avresti scritto queste cose…
I rave a roma nei primi anni 90 non erano affato nazistoidi e politici, tutt’altro per gli illegali decisamente anarchici e da cento sociale.
Se non hai vissuto quel periodo forse dovresti informarti prima di fare (dis) informazione,
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