Non si può essere artisti senza avere una grande personalità, un ego debordante, un Sé molto sviluppato. Chi dipinge, scrive, scolpisce, danza, canta e crea a livelli non amatoriali, ha dentro un fuoco, un ardore, la voglia di sperimentare e di creare il nuovo, quello che ancora non è stato visto e fatto, quello che si trova solo nella sua anima e deve ancora nascere per essere mostrato al mondo. Senza questa forza interiore non si possono sfidare le regole, rompere schemi precostituiti, stupire il mondo. Senza questa forza interiore, questo fuoco che divampa nell’Io e che a volte distrugge, tanta è la forza che scatena, non ci sarebbero le meraviglie artistiche che tutti riconosciamo come tali, e neppure i progressi scientifici e morali che l’uomo ha realizzato attraverso i secoli.
La curiosità, il sogno, l’utopia, il vedere oltre, il credere fermamente nelle proprie idee, hanno portato l’uomo a creare capolavori in ogni campo, anche in quello all’apparenza più umile: quello culinario.
Anzi, forse la creazione più utopica, per la sua natura effimera, è proprio quella della cucina. I grandi cuochi passano ore a sperimentare accostamenti insoliti e nuovi, a studiare la disposizione coreografica dei componenti, cercando di evocare sensazioni, mescolando ricordi, cultura ed esperienze. E tutto questo per un attimo, per l’emozione che dalla forchetta passa all’anima. Poi tutto finisce, solo se l’armonia del piatto è perfetta capiterà di essere colti da un vago ricordo, una sensazione ci prenderà all’improvviso, magari annusando un fiore o assaggiando un altro piatto.
Si capisce allora come solo forti personalità possano sopportare di creare qualcosa che ha una durata così breve pur richiedendo così tanto lavoro, e si potranno così perdonare anche i caratteri eccessivi dei cuochi contemporanei, se in un piatto da loro preparato ritroviamo sapori perduti e attimi di felicità.
Ricordo ancora una pasta con le triglie assaggiata in un noto ristorante della Versilia che ora non c’è più: si chiamava L’Oca Bianca, e dalle sue finestre si vedevano gli alberi delle barche ancorate e si sentiva il tintinnio delle sartie.
In quella pasta c’era l’odore del mare della mia infanzia, il profumo del legno dilatato dalle onde e dal sale e quello dei pesci appena pescati, l’ombra della baracchina dove mangiavamo, le grida dei miei fratelli più piccoli, la spossatezza dopo il bagno.
Sono anni che cerco di rifarla, per poter tornare lì ancora una volta, ma non mi è mai riuscita come quella. La cucina non è solo cuocere, spesso è poesia.
Quella che segue è una delle tante ricette di pasta con le triglie che ho provato.
Ingredienti: linguine o tagliolini, possibilmente fatti in casa, triglie, olive nere, pomodorini piccoli e saporiti, scalogno, aglio, prezzemolo, olio evo, pepe.
Prendete delle piccole triglie freschissime, pulitele attentamente (sono piene di lischine che possono rovinare la riuscita del piatto), denocciolate le olive nere, tritate lo scalogno, lo spicchio d’aglio e il prezzemolo. In una grande padella fate soffriggere dolcemente lo scalogno con l’aglio e il prezzemolo, aggiungete le olive a pezzetti, poi a fiamma quasi spenta i pomodorini, rialzate la fiamma e cuocete per cinque minuti, quindi aggiungete le triglie e continuate la cottura a fuoco dolce per due o tre minuti. Nel frattempo avrete lessato la pasta, quindi scolatela e saltatela nel sugo, aggiungendo un cucchiaio dell’acqua di cottura per amalgamare meglio i sapori. Servite subito con un filo d’olio a crudo, una macinata di pepe e una fogliolina di prezzemolo.
Forse anche a voi questi sapori evocheranno un ricordo.
Claudia Menichini
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