Un edificio bianco dalle forme composte, appena restaurato, appoggiato tranquillo su un grande prato accanto alle mura di Lucca: è qui che per alcuni mesi vivrà il Museo della Follia voluto da Vittorio Sgarbi. Entrando vi accorgete subito che la misura calma dell’esterno non si riflette nell’interno. Vi accoglie il buio, e nel buio luci improvvise che toccano opere d’arte singolari, perturbanti, sofferenti, racchiuse in questo grande spazio scuro che vi avvolge e sembra avvolgere anche le vostre menti: inizierete così un viaggio che non vi lascerà indifferenti.
C’è molta sofferenza, ma anche molto anelito di vita negli scritti, negli oggetti e nelle opere esposte, che si susseguono in un continuo mescolarsi di follia e ragione: non si comprende subito chi le ha create, sono di artisti internati o di artisti liberi? Capirlo non è facile, ma la cosa che si comprende alla fine di questa mostra è che il confine fra ragione e follia è labile e discutibile, e poesia e creatività non sono confinabili nella ragione.
Leggete le lettere degli internati, e scoprirete parole di pura poesia che stringe il cuore, colme di una dolcezza racchiusa che non può uscire, stille di anime prigioniere, parole che non hanno mai raggiunto i mittenti, divenute piccoli doni sofferti per noi che le leggiamo.
Guardate e lasciatevi guardare dalla folla dei volti appesi di Venturino Venturi, un grande del ’900 poco conosciuto, toccato anche lui dall’esperienza del manicomio, rinchiuso per troppa sensibilità. Sorridete al grande disegno di Pinocchio che esce dal tronco, ripensando alla storia del burattino e a quando eravate bambini.
E con sguardo puro guardate gli animali di Ligabue, il gatto selvatico, i leopardi e i leoni, le galline e i cavalli: l’artista mescola il mondo reale col suo mondo onirico, e realizza dipinti ormai considerati semplicemente da tutti quali opere di un grande artista, che attraverso la pittura risolveva i suoi conflitti interiori.
Confusi fra le tante opere ogni tanto appaiono, opportunamente incorniciati, lacerti di oggetti e documenti trovati in manicomi abbandonati, labili tracce della grande sofferenza che abitava quei luoghi: tazze rotte, prescrizioni di medicinali, bottigliette di vetro con la tintura di iodio, vecchi manuali di freniatria, cucchiai. Spicca uno strano oggetto, che l’artista Cesare Inzerillo ha riprodotto in dimensioni giganti, in legno; sembra molto bello, finché non si capisce a che cosa serviva: una sorta di trapano, che doveva aprire a forza la bocca dei malati per farvi entrare le medicine. Enorme, emerge dal buio, lasciandoci perturbati e amari: cosa succedeva dentro quelle mura? Foto e stralci di documentari ci mostrano quelle sale, quelle facce, quei sorrisi sghembi, quegli strumenti di tortura.
Ancora Inzerillo ha realizzato un omaggio a questi volti nella Stanza della Griglia: tutta luminosa, sembra richiamarci dal buio. Dalle pareti ci guardano facce e facce di internati, ma bocche, nasi, occhi sono stati cancellati, come cancellati sono stati i loro sogni, le loro speranze e i loro desideri.
Molte delle opere urlano desideri: di libertà, di una vita lontana dal manicomio, di ritrovare l’infanzia perduta e le persone amate. Nell’opera di Nicola Sferruzza Cicì t’aspiettuda una vecchia porta di legno posta alla fine di uno stretto pertugio buio esce una cantilena in palermitano. Ascoltatela bene, è forse una delle opere più commoventi della mostra, in quelle parole c’è tutto lo strazio di chi aspetta vanamente qualcuno sperando ogni giorno: Cicì iu t’aspiettu, un mi muovu, sugno sempre ca, sempre ca sugno…
Mescolati nel buio si alternano i volti deformati di Francis Bacon e i disegni di Gemito, in cui si ritrae con il volto consumato dall’angoscia, i tratti rapaci e l’occhio allucinato; la bellissima adolescente di Lega, con lo sguardo malinconico e dolente, la Strega di Cammarano, che folle corre nell’impervio sentiero di montagna, e le opere di Fidia Palla. Palla, di Pietrasanta, scultore e disegnatore eccellente, fu internato a Maggiano nel 1924 per volere del padre, anch’esso scultore, sua unica colpa voler creare liberamente, e ne uscì solo con la morte, avvenuta vent’anni dopo. Un destino simile a quello della grande scultrice francese Camille Claudel, internata nel 1913 dalla madre e dal fratello perché viveva sola con i suoi gatti, e perché era stata l’allieva e l’amante del grande Rodin. Sia Palla che Claudel morirono praticamente d’inedia: non c’era cibo per i “matti” durante la Guerra.
In manicomio morì anche Juana Romani. Italiana di Velletri, trasferitasi a Parigi con la famiglia a soli dieci anni, vi divenne famosissima per i suoi ritratti, realizzati durante gli anni d’oro della Belle Epoque, soprattutto donne, dagli occhi malinconici e bistrati. La Romani morì nel 1923, internata in una casa per nevrastenici francese.
Per secoli e secoli l’Occidente ha avuto timore del diverso, dell’estroso, di chi non si riconosceva nell’ordine costituito, di quelli che, si diceva, erano nati sotto Saturno, il pianeta dei malinconici, dei poeti e degli artisti, di chi non si adattava alla cosiddetta normalità. E gli artisti d’altronde spesso vivono assorbiti dalle loro creazioni, lontani. La loro anima è sempre più in alto della nostra, o più nel profondo. Distanti dalle semplici cose del mondo, ne indagano il senso vivendo della loro interiorità; spesso sono bizzarri, parlano da soli e vivono al di fuori delle regole, e soprattutto in passato hanno pagato conseguenze pesantissime per i loro aneliti di libertà.
Perdetevi in questa mostra e lasciatevi turbare, commuovetevi di fronte a questa sofferenza, lasciatevi attraversare da tutte queste sensazioni, da questa bellezza e da questo dolore, e ne uscirete persone migliori.
Il Museo della Follia, resterà aperto a Lucca fino al 18 agosto 2019.
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