La pericolosa attualità di Goethe e Turner
e la salvifica importanza del disegno
di Ludovico Riviera
Scrivere un articolo sui colori, tenendo in considerazione gli scritti, le famose “teorie” del colore newtoniane e goethiane è un affare serio. Beh, l’argomento è vastissimo, e vorrei proporre una lettura laterale della questione; userò queste teorie come pretesto per parlare brevemente dell’evoluzione della funzione del colore nell’arte, da qualche tempo fa sino ad oggi.
Goethe risulta, rispetto a Newton di miglior uso, per il semplice fatto che, come giustamente il tedesco già scrisse, Newton, da scienziato, si interessò esclusivamente a “misurare” il fenomeno cromatico. Artisticamente parlando, l’essenzialità del messaggio scientifico interessa relativamente: Goethe, forte invece di un’attitudine filosofica ed eclettica, tenta di porre il colore entro una prospettiva morale, e persino pre-psicologica[1]. La visione del colore di Goethe, tutta incentrata sulla sua ragion d’essere per noi uomini, è una sorta di introduzione del cambio di paradigma che l’arte e le sue tecniche subiranno nel passaggio dall’età moderna a quella contemporanea. Ciò è quanto trovo geniale ed estremo dell’idea goethiana, fatto che verrà poi condiviso dall’intera dottrina romantica e non solo germanica: la proposizione secondo cui il colore risulti prodotto innanzitutto dal funzionamento dell’occhio, che in quanto organo deputato alla vista, produce i colori come sistema di ordinamento dei fenomeni esterni, per allinearli al ritmo interiore della comprensione umana. I colori sarebbero una sorta di categoria kantiana, che aiutano il nostro spirito a predisporsi adeguatamente al rapporto col mondo esterno, in preparazione alla sua esplorazione. Prendendo in considerazione il fatto che Goethe muova i propri passi partendo anche da Rousseau, è facile estremizzare tale proposizione e pensare come l’intera natura esterna sia, nell’idea del genio tedesco, completamente al servizio dalla soggettività umana e del suo sviluppo, e quindi implicitamente, a nostra disposizione.
Personalmente, interpreto questo antropocentrismo totalizzante, per cui l’uomo è in grado addirittura di produrre le proprie sensazioni per meglio agire sui fenomeni, come qualcosa di vagamente pericoloso: una spirale di pensiero che ci ha proiettato in una condizione di uso non ponderato di quant’altro si trovi al nostro cospetto. Per Goethe, la narrazione degli eventi è sottesa al nostro agire positivo sul mondo, ed i colori come categoria soggettiva ne sarebbero prova: per questo egli preferisce scindere le peculiarità puramente visive e spaziali dell’arte da quelle temporali della poesia. Viaggiando in Italia, egli apprezza l’arte antica in quanto formalizzazione di concezioni anteriori alla propria, ma della sua contemporaneità ignora Canova, preferendo inserire nella sua cerchia amica artisti come Hackert e Kaufmann: paesaggisti e ritrattisti, ovvero analisti del dato visivo che non esigono piegare la propria arte a scopi diversi dall’indagine pura e semplice del complicato rapporto tra soggetto e oggetto. Il colore, in quest’arte scevra da narrazioni superflue, attesta la qualità di rapporti percettivi ed emotivi tra osservatore e osservato.
Turner si allinea alle teorie goethiane e ne mette in scena, per primo, le ambigue conseguenze. Come paesaggista pressoché puro, già dai primi lavori egli propone un mondo in cui le forze della natura coronano, come una quinta teatrale, gli atti di uomini rimpiccioliti su tale palcoscenico: per Turner, lo svolgersi della scena entro un ordine superiore rappresentato dal moto naturale, è irrinunciabile; senza di esso, l’azione umana perde di rilevanza. Siamo d’altronde parte di meccanismi enormi, nei quali dobbiamo pur sopravvivere, i quali ci ostacolano e aiutano a tempi alterni: quale che sia la nostra disposizione nei loro confronti, la nostra azione è giustificata dal nostro perdurare. Dipingendo nel 1984 il famoso quadro titolato Light and Colour (Goethe’s Theory) – The Morning after the Deluge – Moses Writing the Book of Genesis, fu il primo artista a relazionarsi apertamente allo scritto goethiano, assimilandolo ad eventi di portata addirittura profetica. Fu la prima opera celebre a mettere in discussione il primato visivo della narrazione, qui tramutata in allusiva suggestione poetica, veicolata dalla sua astrazione caratteristica, e dai tre titoli. Ogni interpretazione suggerita è sempre legata ad un’idea di natura potentissima, distruttrice e creatrice in egual misura. Soggetti a tale potenza, l’unica cosa che, da umani, siamo in grado di fare dopo una purga diluviale è tramandarne il ricordo: e così Noè, la sua genia e la loro memoria sopravvissuta permisero a Mosè di scriverne, come da titolo, il mattino dopo la tempesta.
Ma cosa centra la visione goethiana con tutto ciò?
È presto detto.
Scrivere del diluvio costituisce certo azione feconda, guarda caso ambientata nella dorata (gialla, il colore a cui Goethe lega radianza, serenità e stimolazione positiva) alba che risana la distruzione di poco prima. Azione feconda, che però non potrà mai competere con l’esperienza reale, che Turner in persona esperirà trovandosi a bordo di una nave nel corso di una tempesta… Lo stesso quadro rappresenta un’approssimazione di tempesta, di mattino, di pace antidiluviana: esso corrisponde alle esigenze interne dell’artista, che vengono quivi proposte come metro di misura assoluta di quanto dovrebbe costituire una visione positiva della nostra condizione, perennemente alla mercé della morte violenta, per mano della natura. L’idea positivista goethiana per cui l’uomo deve poter agire per la propria affermazione, traducendo con la propria soggettività i fenomeni che si ritrova a vivere, è perfettamente esplicata tramite il dipinto, nella figura di Goethe/Turner/Mosè, che tentano di formalizzare il loro punto di vista sul significato degli eventi occorsi. In quest’ottica il colore diventa, proprio come preconizzato da Goethe, portatore di virtù caratteriali ed emotive, che per essere espresse vanno svincolate dall’elemento grafico che più di ogni altro conforma l’ordine (oltre che le funzioni narrative) di un’immagine dipinta: la linea, che inesistente nell’occhio umano, viene da Goethe, e quindi anche da Turner, ignorata. La connotazione psicologica dell’approccio goethiano al colore inizia, attraverso Turner, a uscire dai ranghi delle sicurezze razionali per misurarsi con le vastità dell’ignoto; suscita fin da subito reazioni miste, come dimostra una critica di Ruskin al quadro in questione:
«che sostanzialmente afferma che il regno del colore è un regno di puro sentimento incontrollabile, così com’è incontrollato il dipinto in questione. Non a caso, l’astrazione è il linguaggio artistico che rompe gli schemi dell’ordine, non considera la geometria come ente regolatore ma come strumento liberamente interpretabile. L’uomo impotente non può permettersi di dare forma alle sensazioni di cui è semplice filtro: la forma richiede una presa di posizione netta che il colore goethiano, perfettamente bipolare, non può fornire.
Il colore, da solo, non può provvedere a strutturare un’etica.
Il colore riempie, e deve essere ordinato».
E devo concordare con Ruskin, il quale coglie secondo me sia Goethe che Turner in fallo, quando menziona la bipolarità del colore del tedesco: in quanto categoria mentale, il colore serve ad armonizzare l’ambiente ai nostri bisogni, ma non può esigere di farlo qualora non fosse ordinato da una solida fondazione geometrica. In questo interstizio vive la contraddizione degli intenti turneriani, che pretendono di estrinsecare l’ordine soggettivo del sé interpretante i fenomeni, con null’altro che pure sensazioni espresse da altrettanto puri colori.
Un’approssimazione, che ha aperto le porte ad una personalizzazione sempre più marcata del fare artistico.
Sembrerebbe un paragone azzardato, ma tematiche analoghe a quelle dell’apocalittico quadro furono affrontate con spirito opposto da Michelangelo, circa due secoli e mezzo prima. Nella volta Sistina il velo violaceo in cui Dio si ammanta è tinto di quel colore intermedio che si percepisce, all’alba e al crepuscolo, quando il buio della notte e la luce del giorno si mescolano. Tale colore simbolizzerebbe infatti la trasformazione delle potenzialità dopo periodi di confusione e indefinitezza: il romano ver sacrum, che nella tradizione cattolica diventa Avvento e Quaresima, ovvero celebrazioni che annunciano una novità spirituale di notevole portata. Il Dio della volta Sistina appare, pienamente definito, come un demiurgo alle prese con forze a lui coesistenti: non esiste un rapporto gerarchico tra elementi di egual portata, piuttosto un completamento reciproco e condivisione energetica. In questa visione l’onnipotenza di Dio sembra avere dei limiti: non è un’essenza metafisica, dato che le linee che ne circuiscono l’immagine lo pongono in una sintesi delle forme volumetrica e quasi tangibile. Il Dio michelangiolesco si sforza per attuare il suo piano, i suoi muscoli si gonfiano ed è ostacolato da forze che plasma con fatica: è proprio a nostra immagine e somiglianza, ma le sue azioni, a differenza del combattimento senza sosta dello Sturm und Drang, sono mosse da un’intenzionalità chiara, non di pura affermazione emotiva ma di pianificata armonia e riflessione. Dio è, nel suo colore violaceo, ciò che trasforma con successo l’informe in qualcosa di definito. La mitologia cattolica vuole che, creandolo e rendendosi a sua volta uomo, egli ci abbia metaforicamente conferito la possibilità di porci in armonia con tali energie e pensieri. Michelangelo espresse questa possibilità con successo, conchiudendo il significato teologico del color crepuscolo, e l’intrinseca inesprimibilità di Dio stesso in una forma esatta, volumetrica, spaziale e platonica.
È qui che il colore trova il suo modo d’esser efficiente: addomesticato dalla razionalità del pensiero che si fa immagine, non lasciato libero dal sensazionalismo dell’astrazione. Ed è così che, adeguandosi a narrative ed archetipi costanti, il colore si incasella in un disegno culturale organico, comprensibile ed ereditabile. Tale modalità d’essere del colore è stata portata avanti in arte, nel corso della nostra storia sociale, da circa qualche millennio fino a pochi secoli fa, quando l’arte sola era in grado di produrre il principale veicolo di coesione culturale. Pertanto il colore, doveva essere sottoposto ad un lungo tirocinio iconologico, prima di assumere determinati significati, non certo dettati dal mood del momento.
Pure Goethe sente di non poter rinunciare a considerare il volume, prodotto esclusivamente da luce e ombra e ancora inadorno dal colore, come l’elemento non soggettivo della visione, scrivendo “il chiaroscuro fa apparire il corpo come corpo, in quanto luce e ombra ci danno la nozione di materialità”[2]. Dunque l’aspetto geometrico e spaziale (la materialità è da intendersi come tridimensionalità) dello sguardo, sebbene poco considerato dallo studioso, continua però ad essere fondamentale per imporre una visione chiara, com’è quella michelangiolesca e come non è, al contrario, quella turneriana.
Anteporre la prorompenza esplosiva del colore al rigore del disegno ebbe effetti direi indesiderati, ancora oggi ben risonanti. Effetti che Goethe non si immaginava (e dei quali comunque, nonostante tutto, non gli imputiamo tutta la responsabilità). Egli predicò i sensi umani come strumento di mediazione tra noi e forze inconoscibili, di cui siam preda. I sensi postulano perciò l’esigenza di allineare tali forze alle nostre esigenze, e l’attenzione dell’artista passò quasi automaticamente, nel preservare sé stesso, la propria singolarità e chiudere, rendendo esclusiva, la natura del suo rapporto coll’esterno. Massimizzando la personalizzazione della propria visione, quegli esseri umani che nel primo Turner apparivano minuscoli, si sono rarefatti quasi del tutto.
Egli fu il primo esempio, e particolarmente importante data la manifesta volontà di collegarsi a Goethe. Ma l’impressionismo, nato poco dopo e basato su alcune deduzioni simili a quelle goethiane, vivendo l’aggravante della nascita della fotografia come riproduttrice obiettiva della realtà, continuerà il processo di emancipazione dell’uomo dalla geometria percettiva, incoraggiando gli artisti ad abbracciare l’arbitrarietà visiva per imporre la propria visione. L’arte della pittura si tramuta in chiazze di colore giustapposte, a “suggerire” con sempre meno criterio, “impressioni” in costante sfaldamento. Arriviamo all’espressionismo, arriviamo all’astrattismo puro, e l’art pour l’art del ritrattino e dei paesaggini disinteressati, che tanto garbavano al tedesco, nell’attimo di pochi decenni si tramutano in un chaos completamente slegato dall’ontologia, non più soggettivo ma arbitrario, autodifesosi fino allo stremo dal mondo e perciò rimossosi dall’influenzarlo propriamente.
Il colore va contenuto, non può essere lasciato libero.
La libertà genera irresponsabilità, se non codificata da una sapiente traccia etica, che artisticamente intendiamo come degna progettazione grafica dell’opera visiva. Il colore è divenuto, nel corso del secolo scorso, qualcosa di prescindibile, di accessorio, di solo vagamente metaforico. Non più elemento costruttivo, ma materia gettata, grattata, bruciata e squarciata per provare chi sa quale convinzione metafisica, chi sa quale mal di vivere. Mal di vivere nella società più progredita, meno tirannica e meno oppressiva della storia conosciuta. Gli artisti hanno iniziato ad esprimere in arte il disagio quando la società, in seno al progresso, iniziava a viziarli provvedendogli tubetti di colore già pronto e le comodità e i vizi della vita cittadina.
Goethe per lo meno, nell’esprimere opinioni positiviste, lo faceva con un certo aplomb. In definitiva, con una certa forma, forma di cui oggi continuiamo ad aver disperato bisogno.
[1] “I believe that what Goethe was really seeking was not a physiological but a psychological theory of colours.”, come detto da Ludwig Wittengstein in “Culture and Value”
[2] Pag. 204 della Teoria del Colore, “Il Chiaroscuro”, nota num. 852
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