Se oggi la gastronomia e il piacere della tavola e del cibo sono all’apice dei nostri pensieri è tutto merito (o colpa!) di Jean Anthelme Brillat-Saverin e del suo libro La Fisiologia del gusto.
Libro ritenuto d’importanza capitale nella storia della gastronomia moderna, e da cui inizia la riflessione teorica e filosofica sul cibo, sul gusto e sull’apporto del nutrimento al corpo umano, che si svilupperà per tutto il Novecento e che continua fino a oggi.
Brillat-Savarin non era un cuoco, ma un dottissimo avvocato e giudice, musicista e letterato, nato nel 1755 a Belley, in Francia nel dipartimento Rodano-Alpi. Costretto dalla Rivoluzione a riparare all’estero, visse prima in Svizzera e poi a New York, dove rimase tre anni, insegnando il francese e suonando in un’orchestra teatrale, mentre imparava la lingua, i cibi e gli usi americani, che avrebbe poi riportato in gustosi aneddoti nella Fisiologia. Nel 1796 ritornò in patria, e fu reintegrato nel suo ruolo, lavorando per il resto dei suoi giorni presso la Corte di Cassazione. Scrisse dotti libri di economia politica, legge, antiquariato e archeologia, rimpiangendo del periodo prerivoluzionario solo la sua amata vigna, che gli era stata sequestrata e venduta, e di cui non tornò mai in possesso.
Per tutta la vita lavorò al suo capolavoro (pare che portasse il manoscritto della Fisiologia sempre con sé), e lo pubblicò solo nel 1825, a settant’anni di età, in forma anonima.
Il libro inizia con venti gustosissimi aforismi, di cui alcuni famosi e abusati come il IV: «Dimmi come mangi e ti dirò chi sei». Altri divertenti, come il IX: «La scoperta di un nuovo manicaretto fa per la felicità del genere umano più della scoperta di una stella». E altri che ci insegnano ancor oggi qualcosa, come il XX: «Invitare una persona significa occuparsi della sua felicità durante tutto il tempo ch’essa passa sotto il nostro tetto».
Ma la grande novità del libro, divertente in molte sue parti e ancor oggi molto istruttivo, sta nel modo in cui Brillat-Savarin affronta il tema della gastronomia, dando importanza non solo ai piatti, ma a tutto ciò che li precede, ovvero la coltivazione, la produzione e i trasporti delle materie prime, la loro manipolazione e consumo. A ciò si accompagna una grande attenzione allo sviluppo economico, sociale e culturale che questo comporta, e all’influsso indotto sulla società e sulla sua crescita: «Il fine della gastronomia è vigilare sulla conservazione dell’uomo per mezzo della migliore nutrizione possibile». E ancora: «La gastronomia governa la vita intera». In Brillat-Savarin la storia, la filosofia, l’antropologia, l’economia e, oggi diremmo, l’estetica e la sociologia si intrecciano nella spiegazione del piacere del cibo e del nutrirsi in maniera corretta, e del piacere che se ne ricava anche nel coltivarlo, acquistarlo e prepararlo. Il piacere del cibo viene così legittimato, anticipando concetti contemporanei tanto cari alla filosofia di Slow Food, (che infatti nel 2014 ha ristampato il testo con una bella prefazione di Simonetta Agnello Horby).
Nel libro Brillat-Savarin tratta i vari principi degli alimenti e le conoscenze scientifiche dell’epoca, spiega il gusto attraverso la meccanica di papille, lingua e saliva, e la chimica delle varie cotture. Illustra poi gli effetti sul corpo di vari alimenti, caffè, vino, cioccolata, zucchero, parla di obesità e magrezza eccessiva, e di come combattere questi estremi con una corretta alimentazione. Fa una breve storia filosofica della cucina e della ristorazione, e condisce il tutto con tantissimi aneddoti e ricordi, che fanno del libro una lettura piacevolissima: sapevate per esempio che nell’Ottocento c’erano i “tacchinofili”, che per un tacchino ripieno di tartufi erano disposti a fare follie?
Ma l’insegnamento maggiore di Brillat-Savarin è quando ci indica la differenza fra il piacere di mangiare e il piacere della tavola: il piacere del mangiare è la sensazione di un bisogno che si soddisfa, il piacere della tavola è un piacere riflesso che deriva dalla cura per la preparazione del pasto, la scelta del luogo e dei convitati, e la conversazione: «Dopo un buon basto, il corpo e l’anima godono di uno speciale benessere».
Alla fine del suo libro l’Autore fornisce ai suoi lettori gli indirizzi dei migliori negozi di Parigi, dove approvvigionarsi di primizie, pani e dolci, anticipando così le nostre guide gastronomiche, e chiudendo ci ricorda che «il piacere della tavola è di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i paesi e di tutti i giorni, può associarsi a tutti gli altri piaceri e rimane per ultimo, a consolarci della loro perdita».
Quindi meditate su queste sagge parole, e fatevi un’omelette al tonno secondo la ricetta di Anthelme Brillat-Savarin.
Per sei persone: prendete il latte di due carpe e fatelo imbiancare tuffandolo per cinque minuti nell’acqua già bollente e leggermente salata. Prendete un pezzo di tonno e aggiungetevi uno scalogno tritato molto fine, mescolate il latte di carpa e il tonno, e fate rosolare in una casseruola con un pezzo sufficiente di ottimo burro. Poi prendete un altro pezzo di burro a discrezione, mescolatelo con prezzemolo e cipollina e mettetelo sul vassoio a forma di pesce destinato a ricevere l’omelette, strizzateci del limone e mettete il vassoio in caldo (Brillat-Savarin in realtà diceva sulla cenere calda, ma oggi ben pochi l’hanno a disposizione!). Dopo ciò, sbattete dodici uova fresche e metteteci dentro il battuto di tonno, e fate l’omelette al solito modo, cercando che sia lunga, spessa e morbida. Stendetela bene nel vassoio preparato per riceverla, e portate in tavola perché sia mangiata subito. Questa pietanza dev’essere riservata per le colazioni eleganti, e per le riunioni d’intenditori ove si sa quello che si fa e dove si mangia con attenzione; soprattutto ci si ricordi d’innaffiare con buon vino vecchio e ne risulterà un capolavoro.
Claudia Menichini
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