Piero Merli: una vita per il teatro

Il teatro non è fatto di pietre, tavole e velluto. La sua carne è il pubblico, chi lo cura le sue ossa. Arrivati alla soglia del centocinquantenario del Teatro Verdi di Pisa, non potevamo non parlare del glorioso passato del Teatro; per farlo ci siamo rivolti a una delle più eccezionali memorie storiche del Verdi: il vicepresidente dell’Associazione Pisana Amici della Lirica “Titta Ruffo”, Piero Merli. Per quasi quarant’anni la vita di questo grande conoscitore, ma soprattutto grande amante dell’opera, e del Verdi sono state fortemente intrecciate. Sotto le logge del “suo” teatro, ha deciso di condividere con noi alcuni dei suoi ricordi.

Piero Merli

La sua famiglia per lunghi anni è stata tra i protagonisti dell’attività del Teatro Verdi.
«La mia famiglia è legata al teatro fin dal babbo di mio nonno, perché avevamo in gestione la vendita dei biglietti non non solo di questo Teatro Verdi, anche del Teatro Ernesto Rossi e del Politeama Pisano. Li gestivamo assieme ad un’altra famiglia, gli Orsolini, e loro erano anche custodi del Teatro Rossi, quello in Piazza Carrara. Tra l’altro, avevamo in gestione anche la stampa dei biglietti, perché una volta ogni teatro doveva stamparli autonomamente: una sera facevano il biglietto verde, che era un certo prezzo, una sera il biglietto rosso, che era un altro prezzo.
La maggior parte dei posti erano patronali: c’erano le famiglie che erano proprietarie dei palchi (per palchi si intendevano anche la prima e seconda galleria), delle poltrone, e potevano decidere di affittarli per uno spettacolo e la mia famiglia si occupava proprio della gestione dell’affitto di questi posti. Poi, col tempo, hanno anche preso la gestione dei bar e del servizio guardaroba. Queste gestioni erano delle concessioni annuali che il Comune rinnovava anno per anno.
Naturalmente gli impegni variavano a seconda del periodo dell’anno, perché il Teatro Verdi all’epoca aveva la Stagione di Carnevale e Quaresima, non lavorava come oggi, per la prosa c’era invece il Teatro Rossi – che faceva anche da cinema – e poi c’era il Politeama Pisano che lavorava anche d’estate. Anche il Politeama era del Comune, ma poi è venuta la guerra ed è stato distrutto. Al suo posto oggi c’è il Palazzo dei Congressi, alle Piagge.
Questo era il sistema della mia famiglia, che è andato avanti per tanti anni. C’eravamo anche quando il Verdi ha festeggiato il centenario. Poi, credo che fossero i primi anni ’70, i miei genitori erano diventati anziani, non se la sentivano più di continuare a mantenere la gestione, e l’abbiamo lasciato».

Visto questo legame, si può dire che lei è cresciuto qui. Quali sono i suoi primi ricordi?
«Direi anzi che ci sono nato! Io sono del 1934, ho visto come è cambiato, le persone che sono passate di qua. Ho visto gli impresari che si sono succeduti, che si presentavano qui con le doti (cioè i soldi per mettere su uno spettacolo operistico). L’ultimo impresario del Verdi è stato Verniani, che fece una Tosca con la Callas, Masini e Afro Poli. Ai tempi si faceva così: uno spettacolo la domenica mattina – un matinée – e poi uno la sera. Ebbene, per questa Tosca non c’erano i soldi per pagare lo spettacolo serale quindi si andava in giro cercando di trovare questi soldi. Masini disse: “Ricordatevi che stasera non si muore in Tosca, perché se non mi danno i soldi non si canta!”; infatti si rimase quasi un’ora nell’intervallo tra il secondo e il terzo atto che si aspettava che si trovassero questi soldi perché lui non cantava. Mi ricordo ancora le parole di Italo Bargagna: “Finché io sarò sindaco di Pisa, caro Masini, lei non verrà più a cantare”».

C’è una figura (o più di una) che lei associa al teatro dei suoi ricordi?
«Molti sono passati di qua, però mi ricordo una figura che ormai non esiste più: il capo claque. Ai tempi, per la stagione lirica, c’era ancora la claque e se la claque non veniva pagata in teatro nessuno applaudiva. C’era da dire, però, che era una claque abbastanza precisa.
Ai tempi chi andava in platea o nei palchi doveva essere vestito bene, mentre in loggione e in galleria ci andava la plebe. Quand’era il momento, il capo claque andava sul proscenio ed estraeva un fazzoletto bianco: quando lui agitava il fazzoletto, il pubblico doveva applaudire. Niente fazzoletto, niente applauso. Ed era furbo. Sapeva sempre evitare che si creasse il brusio in sala, quando l’applauso viene azzittito dagli altri spettatori, e sapeva il momento opportuno per fare l’applauso».

Se potesse rivedere una delle rappresentazioni “storiche” del passato – più o meno recente – del Verdi, cosa sceglierebbe?
«Ero piccolissimo, mi ricorderò sempre la prima opera che ho visto, la Cavalleria Rusticana. Mi innamorai di Mascagni, ero pazzo di quell’opera. Nella seconda, L’Amico Fritz, c’erano Ferruccio Tagliavini e Pia Tassinari. Invece, dopo la guerra, vidi il debutto di Corelli in Turandot e ricordo bene che venne Masini a sentirlo, e tra l’altro lui era grande amico del suocero di Corelli. Rimase scioccato da come affrontò l’interpretazione. Corelli, dopo il debutto a Pisa, andò con quel ruolo a Milano, alla Scala.
Però quella Cavalleria mi affascinò tantissimo, per l’atmosfera, per com’era quella musica e per come veniva trasmessa».

In un teatro, specie uno storico come questo, non è importante solo quello che avviene in scena ma anche quel che avviene fuori.
«Certo. E qui ne sono successe di tutti i colori. Ad esempio, finita la guerra qua sono venuti gli Americani. Ora le ringhiere, le balaustre che si vedono sono color avorio: loro verniciarono tutto di giallo! Lo fecero perché, a loro dire, il giallo non attirava le zanzare e le zecche.
Ma non solo! Loro cercavano di fare anche la rappresentazione di opere, se però quella sera preferivano vedere un incontro di pugilato, sul palco montavano il ring per il pugilato e l’opera la portavano al Cinema Italia, che faceva cinema e teatro. Immaginarsi cos’era a quei tempi!».

Come giudica il rapporto tra il Teatro di Pisa e i suoi Pisani?
«I Pisani sono sempre stati attaccati al loro teatro. Molto critici eh (ma così è il carattere pisano, sennò non sarebbe pisano), ma hanno sempre amato il loro teatro e i loro cantanti: un esempio, tutti erano innamorati di Titta Ruffo, il “loro” Titta. Una volta nell’atrio c’era un busto di Titta Ruffo, di marmo; quando accadde il fatto di Matteotti, che era cognato di Titta Ruffo, una squadra di fascisti lo ruppe. Io ho conosciuto Titta proprio quando è venuto a mettere la targa in memoria di quel gesto, quella che c’è ora nell’atrio».

Il Teatro Verdi adesso compie centocinquant’anni: è invecchiato bene? È invecchiato male? Oppure non è invecchiato ma è ancora “giovane” e ha ancora qualcosa da dare?
«Il teatro è il teatro. Questo Teatro è dei pisani e i pisani se lo devono tenere ben stretto perché ha dato davvero tanto e dovrà ancora dare. Oggi lo si segue in modo diverso dai tempi passati, ma il loro attaccamento non è mai venuto meno e quando un pubblico resta ancora così fedele al proprio teatro significa che il teatro non ha ancora finito di svolgere la sua funzione per la città. E questo, come pisano, mi fa molto piacere».

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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