Piketty: Un “sistema organico” per comprendere e incidere sulla realtà
Parlare di economia, in questo momento in cui i giornali mainstream danno a intendere che la crisi è alle nostre spalle e splendide e progressive sorti si aprono per il nostro paese, potrebbe sembrare inattuale. Purtroppo, visto che questa storia ci viene puntualmente raccontata da quasi 10 anni all’avvicinarsi di ogni elezione, ma questa fantomatica ripresa nessuno l’ha realmente vista e importantissime istituzioni finanziarie come la Banca dei Regolamenti Internazionali ci dicono che la vera crisi per l’Italia deve ancora arrivare[1] abbiamo ragione di credere che i temi economici torneranno presto d’attualità.
Ma anche quando inevitabilmente usciremo dalla crisi, magari perché tutto il paese si sarà abituato a vivere nelle condizioni in cui ha sempre vissuto il nostro mezzogiorno e quindi la crisi sarà diventata normalità, i temi economici saranno sempre centrali nell’organizzazione sociale e quindi nel discorso politico. Come ci ricorda il fortunato slogan che permise a Bill Clinton di vincere le elezioni americane contro George Bush senior: “It’s the economy, stupid”.
Questo perché l’economia, come la sua etimologia[2] ci ricorda, studia le condizioni migliori per organizzare e gestire la nostra “casa comune”, la nostra società. Per questo è utilizzata dai governi per orientarsi nelle decisioni politiche e per questo tramite ha un impatto determinante sulle nostre condizioni di vita e di lavoro.
Nella pratica il rapporto fra scienze economiche e governi è rovesciato. Il grande capitale non ha alcun interesse ad una ricerca economica libera. Come ogni potere, anch’esso ha bisogno di un sistema teorico-ideologico che ne rafforzi la legittimità. Questo sistema, che ai tempi di Cesare Augusto e Mecenate era costruito tramite l’arte e la cultura, viene oggi creato tramite teorie scientifiche – o sedicenti tali. Siamo in altre parole in presenza di gruppi d’interesse organizzati che esprimono una “domanda politica d’idee economiche” e che pongono in essere, attraverso governi compiacenti, meccanismi sempre più sofisticati di controllo delle università e della produzione scientifica[3] per “catturare”[4] l’economia. Un problema che i padri costituzionalisti americani avevamo ben presente, tanto che gli unici contratti a tempo indeterminato statunitensi sono quelli dei giudici della corte costituzionale e di professore ordinario.
Ma le regole che valgono per i professori ordinari a fine carriera non si applicano ai giovani ricercatori, cui viene chiesto, se vogliono fare carriera, di orientare i loro studi seguendo due strategie principali: la prima, più evidente, consiste nella magnificazione diretta delle sorti del liberalismo e della demonizzazione di ogni forma d’intervento dello stato nell’economia. La seconda, più sottile e forse ancora più perniciosa, si attua tramite l’eliminazione di qualunque connotazione politica dal discorso economico. In questo secondo caso il lavoro dell’economista sarà allora di cercare correlazioni spurie, cioè puramente empiriche e senza causazione, fra fenomeni economici e variabili non politico-sociali. Si vuole in questo modo far rinnegare all’economia la sua essenza di scienza sociale (in cui non tutto può essere ricondotto alla matematica, perché l’uomo, la sua complessità e la sua psicologia non possono essere ridotte ad una formula matematica) per far passare l’idea che l’economia sia una scienza esatta come la fisica. Compiuta quest’operazione, ogni riferimento alla politica risulterà inappropriato esattamente come nel caso della fisica. Ovviamente tutti quelli che si occupano di economia a un livello superiore a quello del bar sport si rendono conto della realtà e neanche stanno a discutere dell’immagine dell’economia come scienza esatta che viene vendute alla maggior parte della popolazione dalla stampa ufficiale. Basta considerare gli scritti, anche divulgativi, dell’ultraliberale Donal/Deirdre McCloskey in proposito. Ma il mandato è di evitare che questa conoscenza arrivi alla gran massa della popolazione.[5]
Nella sfortunata eventualità poi che qualcuno si prenda la briga di far riemergere l’interazione fra economia e politica, basterà ricordare ad un pubblico precedentemente indottrinato come debba essere quest’ultima a seguire le leggi della scienza economica rifiutando di confondersi con qualunque altro tipo di approccio, che sarà immediatamente bollato come ideologico – come puntualmente accaduto nel caso del libro di Piketty.
In questo opprimente panorama il gruppo di economisti raccolti intorno a Piketty nell’école , coniugando nella migliore tradizione economica solidità scientifico-matematica con un ragionamento politico-sociologico, offrono un quadro teorico d’insieme al cui interno è possibile posizionare e interpretare le singole contrapposizioni della politica odierna, di cui spesso ci sfugge il senso, dando una chiave di lettura del nostro intero sistema economico-sociale semplice ma non semplicistico e di facile applicazione. È quello strumento che mancava alla sinistra per spezzare l’egemonia culturale della destra che ha dominato dall’avvento della Thatcher al potere.
Oltre a ricordare la stretta connessione fra economia e politica (il testo viene infatti presentato come un’opera di economia-politica, disciplina che l’ideologia dominante vorrebbe relegare nel campo della favolistica ideologica e della ricerca archeologica prescientifica) e chiedere, seguendo Bobbio, di restituire lo scettro a quest’ultima che, ricordiamolo, è uno spazio di libera scelta e quindi di libertà.
Il libro rottama alcuni dei principali capisaldi del pensiero liberale moderno, a partire da quello della crisi. Piketty ci ricorda che non siamo affatto in crisi, siamo anzi in una nuova età dell’oro in cui il prodotto nazionale lordo dell’occidente è aumentato moltissimo. Il problema è che questa ricchezza non è stata redistribuita, quindi la classe media viene sempre più depauperata, con meccanismi legislativi creati ad hoc, a favore degli strati più abbienti della società, il famoso 1%.
Se un rappresentante della destra viene alla fine confrontato con questa sconveniente realtà, potrebbe anche riconoscere, se intellettualmente onesto, l’esistenza del fenomeno e la necessità di correttivi[6], ma non metterà in discussione il sistema ultraliberale perchè: 1) Quest’aumento della ricchezza delle classi più abbienti produrrà nuovi posti di lavoro. Il benessere “gocciolerà” così naturalmente verso le classi inferiori che ne trarranno beneficio[7]. 2) La differente distribuzione della ricchezza è dovuta a differenze nel merito e il riconoscimento del merito è la base del nostro progresso economico -oltre che un obbligo morale della nostra società, visto che calvinisticamente chi è meritevole lo è in quanto prescelto da Dio.
Il gruppo di Piketty attacca, tramite accurate quanto noiose ricerche econometriche, anche questi due assiomi, arrivando a sostenere che senza politiche attive di redistribuzione la ricchezza tenderà naturalmente a concentrarsi sempre più nelle mani di pochi (com’era prima della prima guerra mondiale e com’è accaduto dalla fine della guerra fredda in poi) e mostrando come detassando le rendite di capitale e tassando il lavoro dei ricchi lo sono per nascita non per merito, esattamente come accadeva nell’Ancien Régime. In più questo trend, malgrado l’apologia dei Bill Gates e degli Zuckerberg[8], si va sempre più rafforzando, perché le eccezioni sono tali e non costituiscono la regola: per una Cenerentola o Biancaneve restano milioni di uomini e donne in occidente che si stanno progressivamente impoverendo.
A partire da queste costatazioni il libro fa una serie di proposte concrete di politica economica, come quelle di aumentare il carico fiscale sul capitale e di diminuirlo sul lavoro e di aumentare la progressività dell’imposizione, progressività contenuta nella costituzione e non a caso messa sotto attacco anche in Italia dagli economisti della nuova destra anti-euro come Borghi.
Per rendersi conto della potenza del libro basta osservare le reazioni furiose della destra americana immediatamente dopo la sua pubblicazione. Due strategie sono state messe in campo: la stesura di un velo d’oblio sull’opera di cui è meglio non parlare, ma se qualcuno dovesse averla letta deve essere immediatamente chiarito che non si tratterebbe di un testo scientifico ma di favola ideologica comunista – quindi pericolosamente estremista e superata dalla storia.
Proprio per opporci all’oblio cui si vuole condannare l’opera, come Rosa Bianca abbiamo deciso di organizzare una serie di workshop che approfondiranno le varie tematiche affrontate dal libro. il primo di questi workshop, che fanno parte di un più ampio ciclo di dibattiti dedicati ai temi dell’economia solidale dal titolo “Economia per le persone o le persone per l’economia?” promossa da un coordinamento di associazioni pisane, si terrà Sabato 19 marzo alle 17:30 presso i locali di Rinascita in via del Borghetto 37 a Pisa, tratterà la disuguaglianza della distribuzione della ricchezza e sarà tenuto dal Professor Davide Fiaschi, presidente del Corso di Laurea Magistrale in Economia dell’Università di Pisa
[1] BRI 85° Relazione Annuale. http://www.bis.org/publ/arpdf/ar2015_it.pdf
[2] Dal greco “οἶκος” (oikos), “casa” inteso anche come “beni di famiglia”, e “νόμος” (nomos), “norma”.
[3] Vale la pena leggere in proposito “Valutare e punire” di Valeria Pinto, Cronopio Edizioni, Napoli.
[4] Gramscianamente possiamo osservare che è un fenomeno che non riguarda solo l’economia: negli scorsi anni anche la politica e le religioni sono state “catturate” dai poteri forti. Per inciso, visto che lo Spirito Santo ha percorsi a noi imperscrutabili, la chiesa cattolica con l’elezione di Papa Francesco si è momentaneamente liberata da questa schiavitù.
[5] Donald Mccloskey: La retorica dell’economia
[6] Confronta ad esempio Luigi Zingales, Raghuram G. Rajan: “Salvare il capitalismo dai capitalisti”.
[7] La famosa “Trickle-down theory”, base della “Reaganomics”, versione americana del Thatcherismo. Vorrei ricordare il contributo alla comprensione di questa teoria di una mia collega della vecchia Europa che osserva quanto la redistribuzione della ricchezza in questo sistema rassomigli alla cottura degli spaghetti: gli spaghetti restano nello scolapasta a favore delle classi più abbienti, l’acqua di cottura gocciolerà verso le classi subalterne, grate di non morire di fame grazie ad essa.
[8] Cfr. sempre Deirdre N. McCloskey: “I vizi degli economisti, le virtù della borghesia (Mercato, Diritto e Libertà)”
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