Pisa celebra il “suo” Guglielmo Tell

PISA – Il sipario del Teatro Verdi si alza, finalmente, su uno dei titoli più attesi della stagione 2019/2020, il Guglielmo Tell di Gioachino Rossini. Un titolo molto atteso dagli spettatori dello storico teatro pisano, non solo perché mancava da ben cinquantadue anni, ma soprattutto perché è stata l’opera di inaugurazione del Verdi, un’opera che lo stesso pubblico chiedeva a gran voce dopo i festeggiamenti nel 2017 per i 150 anni del Teatro.

Dopo una così lunga attesa, è naturale ci fossero (anche da parte della critica) alte aspettative; la corposa coproduzione – tuttavia – non ha del tutto convinto, soprattutto a causa della singolare e invasiva rilettura operata dal regista Arnaud Bernard, letteralmente sin dalla levata del sipario. Se l’idea dell’overture a scena aperta è fastidiosa di suo, diventa irritante quando un impianto complesso come l’overture del Guglielmo Tell viene utilizzato come mero supporto per una vivace pantomima che a nulla serve ai fini dell’azione scenica (poteva essere riassunta in non più di dieci secondi, invece si protrae per dieci esasperanti minuti). Si possono anche capire le ragioni della regia, ma una scena come quella presentata da Bernard distrae e riduce l’overture a una banale colonna sonora (spogliandola, per giunta, di qualsiasi nobiltà). Le sontuose scene di Virgile Koering, stupefacenti per l’attenzione al dettaglio, e gli splendidi costumi di Carla Galleri fanno presagire una rappresentazione di alto profilo, ma vengono immiserite da una rilettura satura del “già visto”: l’espediente del sogno (infantile o meno) è già stato sviluppato in altre produzioni, ad esempio nella Gazza ladra di Michieletto o nella Giovanna d’Arco di Leiser/Caurier, e in modi assai più coerenti di quello adottato da Bernard (una confusa visione in cui l’arredamento domestico dovrebbe simboleggiare, ad esempio, alcuni tratti del paesaggio alpino, se non che vengono totalmente ignorati dai personaggi; per non parlare di quando il bambino abbandona il sogno che – a quanto pare – è in grado di sostenersi da solo, come il Barone di Münchhausen che si regge per il colletto). Al netto di un lavoro registico pigro, che comunque lascia il tempo che trova, l’impostazione di Arnaud Bernard si segnala per due elementi di spicco, ossia i tagli e la rilettura. Quello portato in scena non è il Guglielmo Tell di Rossini, ma una sua versione spolpata, disossata, ridotta a paté e servita con crudités di verdure. Va bene interpretare e reinterpretare un’opera teatrale, ma sempre nel rispetto del testo e dell’intenzione del compositore: in breve, bisogna preservare l’anima dell’opera. Bernard ha preferito sostituirsi a Rossini e raccontare una versione for dummies del Guglielmo Tell, in cui i tagli – musicalmente parlando – sono abbastanza indolori (con le sanguinanti eccezioni del Finale I Atto, del duetto Arnoldo/Matilde e del Finale del II Atto). Ciò che i numerosissimi tagli abbattono e lo spessore di un libretto costruito su molteplici livelli, ridotto a poco più di una storiella. Pessima anche la scelta di adottare in toto la traduzione italiana di Calisto Bassi: se era accettabile per il 1831, oggi appare ben più che stolida, con il meraviglioso Tutto cangia, il ciel s’abbella che, invece che con quel tonante grido «libertà», termina con la brutta soluzione «Quel contento che in me sento/Non può l’anima spiegar».

Meglio il profilo musicale, a cominciare dal direttore Carlo Goldstein, che fa ritorno al Teatro Verdi dopo sei anni. L’intenzione c’è e le note (Cadenza in do maggiore) dimostrano che Goldstein conosce bene il valore dell’opera; da ciò ci si aspetterebbe un maggior rispetto della partitura rossiniana e maggior economia di tagli. Beninteso: per un direttore d’orchestra, fronteggiare il Guglielmo Tell è come dover affrontare un titano all’arma bianca, e Goldstein esce senz’altro vittorioso dalla tenzone, ma nel complesso questa è un’esecuzione che fa rimanere “con la voglia”, perché mancano quei momenti in cui il direttore imbriglia la straordinaria energia dell’opera e la fa confluire e finalmente esplodere. Ecco che il terzetto del II Atto e la cabaletta Corriam, voliam, per non citare che due esempi, risultano piuttosto spenti. Nella direzione di Goldstein c’è tutto: precisione, pulizia, intelligenza, ma manca il sangue.
Ottima l’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano, che tenta di far emergere per davvero il piglio sanguigno: ora agguerrita e tormentata, ora voce di intima meditazione, l’orchestra pare essere uno dei due soli elementi che sembrano credere fino in fondo in questo Guglielmo. L’altro è il coro. Il Coro Opera Lombardia, diretto da Massimo Fiocchi Malaspina, in mezzo alle puerili divagazioni della regia ha saputo ritrovare lo spirito del testamento operistico di Rossini, riuscendo a infondere il giusto colore nei grandi assiemi (che, in una certa misura, anticipano i fragorosi cori di popolo verdiani).

Il cast vocale di per sé si è dimostrato ben oltre le aspettative, ma è stato schiacciato da una regia illogica e tendente alla bidimensionalità. Ecco che il buon Nico Franchini (Ruodi), a dispetto di una performance di tutto rispetto, suscita qualche ilarità per rientrare in scena ancora coperto di sangue, esattamente come due ore prima; simili danni collaterali sono accusati anche da Luca Vianello (Leutoldo) e Irene Savignano (Edwige): al netto di un’interpretazione molto buona, i loro personaggi sono schiacciati dalla livella di una rilettura mediocre che tende a uniformare piuttosto che a valorizzare. Il Gessler di Rocco Cavalluzzi ha una buona forza e un piglio che in altra situazione sarebbe stato più che convincente, ma in questo frangente è poco più di un antagonista da operetta; con dispiacere, anche il Melcthal di Pietro Toscano non riceve miglior trattamento (il pestaggio a fine I Atto risulta tanto grottesco da sfiorare il ridicolo). Il basso baritono Davide Giangregorio riesce a ricavare un buon spazio per il suo Gualtiero Fürst, di buon effetto nelle scene di rovente amor di patria.

Giulio Pelligra ha presentato un ottimo Arnoldo, avvalendosi di un impeccabile controllo dello strumento vocale e di un timbro cristallino, unito a una potenza adeguata al ruolo; dispiace per il do di petto al termine di Corriam, voliam, infiacchito dallo stesso sotterfugio nell’incisione del 1980 diretta da Chailly e con Pavarotti come Arnoldo dove, per far meglio risaltare la puntatura, si richiede all’orchestra di suonare più piano per poi esplodere non appena il tenore cessa di mettersi in mostra. 
Notevole la Matilde di Marigona Qerkezi, l’indimenticata eponima Lucia di Lammermoor della scorsa stagione; la sua intelligenza e la vocalità duttile la rendono un’interprete eccellente per il ruolo; interessanti le sfumature, anche minime, con cui riesce a caratterizzare ogni frase. A coronare il gruppo dei protagonisti lo stesso Guglielmo Tell, che qui veste i panni del baritono albanese Gezim Myshketa, rimarchevole per l’intensità e il pathos che ha saputo imprimere all’eroe svizzero. Una menzione speciale la merita la giovanissima Barbara Massaro, chiamata a interpretare Jemmy: sebbene sia a tutti gli effetti un personaggio minore, nella rilettura di Bernard si trova fondamentalmente sempre in scena per l’intera durata dello spettacolo. La Massaro ha dimostrato non solo il proprio valore come cantante ma anche di possedere grande padronanza della scena, senza mai risultare banale o forzata.

In definitiva si tratta di una rappresentazione ben più che dignitosa, ma lascia un po’ di amaro in bocca: coinvolgendo ben sei istituzioni (oltre al Verdi, Teatro Sociale di Como/As.Li.Co, Fondazione Teatro Ponchielli di Cremona, Fondazione Teatro Grande di Brescia, Fondazione Teatro Fraschini di Pavia, Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo), vantando un cast artistico e tecnico di valore e – soprattutto – data la scarsissima frequenza del titolo, sarebbe costata assai poca fatica in più realizzare uno spettacolo migliore. Dopo cinquantadue anni, Rossini lo meritava.

Photocredit: Alessia Santambrogio

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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