Com’era verde la mia valle (How green was my valley, John Ford, 1941)
«Lascio dietro di me cinquanta anni di memoria. Memoria… Strano che la mente dimentichi così presto quello che è passato da un istante e tuttavia ritenga chiaramente ciò che è successo tanti anni fa, a uomini e a donne morti da molto tempo… E poi chi può stabilire esattamente la differenza che passa tra la realtà e il sogno? Posso credere che i miei amici se ne siano andati tutti, quando le loro voci sono ancora nelle mie orecchie? No, mille volte no, perché essi costituiscono una vivente verità nella mia mente. Non c’è barriera né limitazione, intorno al tempo trascorso. Si può retrocedere nel tempo e, se la memoria ci assiste, ricordare solo quello che ci fa piacere; cosicché io posso chiudere gli occhi e vedere la mia valle non com’è oggi, ma com’era quando io ero ancora un ragazzo.»
Sulle parole dell’ormai adulto Huw Morgan comincia il lungo flashback che costituisce Com’era verde la mia valle, diretto da John Ford nel 1941. Preparandosi a lasciare per sempre la sua amata valle, Huw impacchetta le sue poche cose nello scialle che la madre usava per andare al mercato e si abbandona al ricordo della sua infanzia che questi oggetti, custodi di un tempo andato, evocano con amara nostalgia.
Il paese del Galles dove cresce il piccolo Huw si regge su solide istituzioni: la famiglia, la chiesa, la miniera. La piccola comunità trascorre le giornate scandite dai rintocchi delle campane e dai rituali familiari. Al rientro dalla miniera il pranzo è consumato in silenzio, una cerimonia diretta dal capofamiglia che, come definisce il protagonista, è la testa della casa; la madre, che invece ne è il cuore, è colei che si prende cura della famiglia e che ne garantisce la serenità. L’educazione e la fede sono i pilastri su cui si è basata la crescita dei figli, così come il rispetto dei genitori e del denaro. Huw è il più piccolo dei fratelli, tutti lavoratori nella miniera del paese. Guarda agli adulti con lo sguardo affascinato dell’infanzia, invidiandogli la polvere nera di carbone che prepotentemente si infila sotto le unghie, come un sigillo che la miniera impone e che diventa per lui il simbolo dell’età adulta, dell’iniziazione alla vita che il lavoro stabilisce. Il nero assume un carattere peculiare nel film, contrapposto al verde florido della valle che subisce una mutazione irreversibile. Una contrapposizione cromatica che sembra voler affidare al colore nero il passaggio del tempo, un tempo scuro, che cambia tutto, che si spande e si insinua fin sotto la pelle. Che colora il paesaggio cancellando la felice spensieratezza dell’infanzia, per lasciar posto al dolore e alla dura lotta per la vita. È il colore che sembra essere affidato al progresso, all’evoluzione che cambia intimamente la vita dell’uomo ed è il colore della miniera, che toglie la vita senza chiedere il permesso, che continuamente richiama il paese con la sirena tragica, indice di un incidente avvenuto e di compagni da seppellire e che è l’elemento di un’altra contrapposizione di tipo sonoro, in riferimento alle campane del paese. Il verde della valle è dunque il simbolo dell’epoca ancora intatta, solida di speranza e futuro.
Il valore della collettività è centrale in tutta la narrazione: i lavoratori formano un corpo il cui canto è come «luce negli occhi», che si fa forza contro la prepotenza e lo sfruttamento dei padroni e organizza i primi scioperi contro i salari bassi.
Huw assiste al trascorrere dei giorni, assaporando piano piano la vita: le difficoltà del primo giorno di scuola, il sapore inconfondibile di certe caramelle, la prima volta che incontra Bronwen, che diventerà la moglie di suo fratello, il dolore della morte e della solitudine intorno alla sua famiglia.
Ford ritrae la famiglia Morgan con un affetto che tradisce la vicinanza delle sue esperienze biografiche. Il potere della memoria diviene indispensabile per colmare la mancanza dei propri cari, del tempo trascorso, ed è l’unico mezzo in grado di conferire corpo e vividezza a ciò che non c’è più, seppur in uno stato a metà strada tra la realtà e il sogno. Il film evoca quindi non solo una riflessione su ciò che intimamente abbiamo perso, travolti dal progresso e dalla ricerca di valori sempre più materiali, ma anche su ciò che ritroviamo dentro di noi, ricordi indelebili e tangibili che coesistono in noi. L’orologio che Gruffydd regala a Huw, sul finale del film, richiama le parole iniziali pronunciate dal protagonista, che rendono lo spettatore partecipe di ciò che la memoria effettivamente è: la capacità di vincere il tempo.
Erica Barbaro
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