Tra fantasia e realtà, tra ombra e luce: la follia
“Ero matta in mezzo ai matti.
I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti.
Sono nate lì le mie più belle amicizie.
I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo.
I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita”.
Alda Merini
La follia è una zona di passaggio tra la fantasia e la realtà, un limbo nel quale è difficile capire cosa si è o cosa si dovrebbe essere. Da questa zona a metà tra l’ombra e la luce scaturisce il pensiero di taluni i quali, non abdicando mai, neanche per un secondo, alla propria natura, la rivolgono con altruismo verso un mondo, a volte duro e sordo, ma che non possono ignorare.
Ed è proprio il “folle” che, più di ogni altro, vede al di là degli umani pudori, sensibile all’insensibilità del mondo, pazzo in un mondo pazzo, ma di cui non si può ignorare l’intrinseca poesia. Il mondo spesso si erge imponente, ma non v’è altezza, per un poeta, che non valga la pena di salire così da poter ammirare l’essenza più profonda del nostro essere. Il poeta, se indugia, fa del proprio indugio una nuova esilarante composizione. Ecco allora che anche semplici parole, dette apparentemente a caso, magari un giorno, alla cornetta di un telefono, possono prendere vita in un meraviglioso verso. Questa è la storia di una tra le più grandi compositrici contemporanee, Merini, e, con essa, del suo trascorso manicomiale.
La poetessa, afflitta da un grave disturbo bipolare, trascorse buona parte della propria vita in manicomio e trasse da questa sua esperienza la voglia di scrivere, inaspettatamente, dell’amore, quell’amore che ella stessa, in poca quantità, aveva ricevuto, ma abbondantemente elargito. Nel 1965, date le leggi allora vigenti, il marito Ettore Carniti, con il quale si era sposata all’età di ventidue anni, la fece internare nel manicomio “Paolo Pini” di Milano, dove trascorse dieci lunghi anni. Il primo impatto che essa ebbe con il manicomio fu devastante. Esso emanava un odore acre di malattia e urina, misto ad altri fluidi organici, poiché i pazienti defecavano e urinavano a terra. Altri ancora erano legati a letti di contenzione e non facevano altro che urlare fino a perdere conoscenza.
Alda Merini denominerà questa visione infernale col nome di “Girone dei Dannati”.
In quei luoghi di prigionia la personalità del paziente veniva totalmente azzerata ed ogni atteggiamento contrario al regolamento manicomiale, come anche la troppa docilità, represso con la violenza. La Merini conservò, tuttavia, un atteggiamento umano, senza urla o lamenti, anzi, scrisse e scrisse lettere ai medici, imprimendo in esse tutto il dolore per il tiepido amore del marito, reticente nei confronti della malattia dalla qual la moglie era afflitta.
Nel 1979, uscita dal manicomio, sebbene soffrisse ancora del suo disturbo, cominciò a lavorare a quello che sarà considerato il suo capolavoro, “Terra Santa”, un volume di composizioni che sono vera e propria catarsi sulla sua esperienza di “pazza” in manicomio.
La terra santa
“Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti…
“Terra Santa” è tante cose.
“Terra Santa” è una denuncia contro le barbarie cui i malati mentali erano sottoposti, privi di cure, e abbandonati in un limbo dove i sedativi e l’elettroshock (a cui la stessa Merini fu sottoposta), costituivano la profilassi standard per ogni patologia.
“Terra Santa” sono parole di affetto e non mancano infatti i riferimenti all’amore nutrito dalla poetessa per qualche paziente, anche donna, o per un dottore un poco più attento e sensibile.
Ma “Terra Santa” è soprattutto uno schiaffo a chi credeva che la pazzia fosse solo astrazione, qualcosa di lontano che tocca pochi, una condizione irrimediabile e immeritevole di cure sempre inutili e sprecate.
La forza della voce della Merini porta nel 1984 l’editore Sheiwiller a riprendere trenta liriche già pubblicate e a ripubblicarle con l’aggiunta di altre dieci, sancendo così la fine di ogni ostracismo nei confronti della Merini. Merini che sarà ospite fissa presso il salotto di Maurizio Costanzo, grazie al quale otterrà la “pensione Bacchelli”, elargita ad artisti e poeti che versano in gravi difficoltà economiche.
Nel 1983, dopo essersi sposata con il medico e poeta Michele Pierri, con il quale aveva intrattenuto una corrispondenza telefonica ed epistolare per lungo tempo, dopo la morte del marito, si trasferì a Taranto dove, poco tempo dopo, si riaffacciò il demone della follia. Venne internata nel manicomio di Taranto, il quale le apparve tanto terribile da farle rimpiangere il “Paolo Pini”. Nel 1986 tornò a Milano, dove venne seguita con successo dalla psichiatra Marcella Rizzo, alla quale dedicò più di una composizione. Ebbe così termine così il suo percorso manicomiale, anche se la sua vita ne portò per sempre i segni indelebili.
Gli anni a seguire furono caratterizzati da un modo di vivere particolarmente eccentrico, la Merini accoglieva gli ospiti in bizzarre uniformi e divise, dove campeggiavano ovunque foto che la ritraevano nuda e senza pudori. All’ultimo arrivato offriva dolci, tortelli caldi e, se le era simpatico, magari raccontava anche la sua vita. Divenne cliente abitudinaria del Caffè La Chimera, sui navigli milanesi, rendendo la sua figura, già romantica, un poco più bohemienne. Ogni cosa in lei mantenne quel pizzico di follia che fu segno caratterizzante così della sua esistenza come della sua poesia:
“Il dottore agguerrito della notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quando ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuova
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
Il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio”
da “La terra santa”
Questo è uno tra i più fulgidi esempi della disumanizzazione della vita in manicomio, dove i medici, insensibili di fronte ai pazienti, infliggevano loro la pena tormentosa dello psicofarmaco, antidoto di cinica incoscienza in cui si vegeta, appena consapevoli dei rumori e degli avvenimenti del mondo che ci circonda.
E ancora:
“Quando sono entrata
tre occhi mi hanno raccolto
dentro le loro sfere,
tre occhi duri impazziti
di malate dementi:
allora io ho perso i sensi
ho capito che quel lago
azzurro era uno stagno
melmoso di triti rifiuti
in cui sarei affogata”.
da “La terra santa”
La Merini, del resto, non si riconosceva nelle pazienti tipiche del manicomio. Lei che riuscì a conservare la sua umanità, la sensibilità del poeta romantico, quella sua eterna emozione per lo scrivere versi che , seppure amari, furono la vera salvezza della sua anima.
Ecco. Questo è stato per la Merini il manicomio: un girone infernale durato un’eternità, al termine del quale, anche se troppa vecchia per le passioni della carne, non lo fu mai per quell’amore che continuò ad elargire con generosità, come aveva fatto per tutta la sua vita.
C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani saenza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poichè la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar.
Nicola Di Nardo
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