Un tempo andare a cena fuori con gli amici era un piacere. Si sceglieva il ristorante pregustando l’idea di assaggiarne le specialità decantate dalle guide gastronomiche, e si passavano deliziose serate valutando i piatti assieme agli altri, chiacchierando e ridendo, e alla fine si tornava a casa più felici.
Ora non si può più: chi è diventano vegano, chi intollerante al lattosio, chi allergico ai pinoli, o al maiale, al coniglio, alle fragole. C’è quello che fa la dieta della luna, l’altro quella del paleozoico, oppure quella degli asparagi a colazione, pranzo e cena. Chi la Atkins, chi la Dukan, chi quella del gruppo sanguigno, e poi spesso si trova quello ossessionato dal cibo sano, che non mangia se non le cose preparate a casa sua, lavate centinaia di volte e comprate solo in un negozio di sua assoluta fiducia. E poi c’è chi non mangia pesce, chi non mangia carne, chi mangia solo cibi crudi, ma il peggiore è quello che ti sfinisce pontificando che quello che mangi è puro veleno, e solo quello che mangia lui potrebbe farti vivere sano, sanissimo fino a cent’anni, e ci crede con l’assoluta certezza di un invasato religioso: solo lui ha visto la luce, e te, disgraziata, che ancora metti lo zucchero nel caffè e che anzi lo bevi ancora, sei destinata a morire velocemente. Io lo guardo sconsolata, e penso che non avendo più vent’anni mi deve essere andata di lusso!
Insomma ormai è quasi impossibile essere felici mangiando, perlomeno in compagnia. Siamo talmente ossessionati dal cibo che ne parliamo in continuazione, venerandolo o demonizzandolo, ma ne abbiamo perso il significato primario ed essenziale. Il cibo è la base della vita, senza nutrimento moriremmo, ed è vero che senza rispetto per ciò che ingeriamo potremmo ammalarci, ma ci si ammala non solo per l’insano, ma anche per il troppo sano. L’ossessività fa male in ogni campo, come l’integralismo, che non rispetta la cultura e le scelte culinarie degli altri.
Spesso si dimentica che prima dell’avvento dell’agricoltura intensiva e dei nuovi metodi di coltivazione eravamo preda delle carestie, si mangiava poco, rachitismo e scrofolosi erano diffusissime nelle fasce più povere della popolazione, l’aspettativa di vita era molto più bassa, e si moriva mediamente molto più giovani di adesso. Ora c’è molto più cibo a disposizione e ingeriamo più calorie di un tempo, i nostri corpi sviluppano strutture ossee molto più robuste e resistono molto meglio alle malattie, non solo per i sacrosanti progressi scientifici, ma anche perché siamo più nutriti, e quindi più forti.
E ci dimentichiamo che siamo fondamentalmente onnivori, e proprio questa caratteristica ci ha permesso di evolverci, consentendo di adattarci anche a situazioni estreme: siamo sempre riusciti a trovare qualcosa da mettere sotto i denti per sopravvivere, anche durante le guerre peggiori e le carestie più epocali. Essere onnivori ci è servito anche a sviluppare importantissime capacità cerebrali, come la capacità di osservazione, la curiosità e la memoria: mangiando solo germogli di bambù, come i panda, non saremmo andati da nessuna parte, detto con tutto l’amore possibile per i panda.
Quindi per restare sani e svegli abbiamo bisogno della maggior varietà possibile di alimenti, se non lo facciamo non percepiamo neppure più la bontà e la varietà del cibo che la natura ci offre, e soprattutto ci priviamo di un piacere primario fondamentale, che è quello di provare gioia nel nutrirci. Invece ormai mangiare è una lotta contro tutto e tutti, ed è questa situazione di tensione onnipresente che ci fa molto male, non un cucchiaino di zucchero.
Il nostro rapporto con il cibo va completamente rivisto, va rispettata la terra e quello che ci offre, scegliendo cibi sani, possibilmente coltivati in zone vicine a dove abitiamo, comprando carne di animali allevati all’aperto e trattati correttamente, pesce che ha nuotato in mare, uova di galline che hanno razzolato a terra e non costrette in orride gabbie. Ma soprattutto dobbiamo ritrovare il piacere di condividere il cibo con gli altri, rispettando al tempo stesso chi mangia in modo diverso da noi.
In fondo oggi la trasgressione più grande è mangiare tutto, se ci va di farlo, con tranquillità e serenità, rendendoci conto di come siamo fortunati a vivere in un’epoca di abbondanza alimentare. Certo è anche questo che ci ha fatto perdere il senso del cibo e della sua forza. Aristotele sosteneva infatti che più abbiamo fame più ci risulta buono quello che mangiamo. E allora proviamo a mangiare un po’ meno, e quando ci ritroviamo insieme attorno a un tavolo abbandoniamoci al piacere del convivio senza demonizzare chi mangia una bistecca, o il seitan, o solo una carota, senza cercare di fare proseliti per l’una o l’altra fazione alimentare. Il rispetto reciproco, l’accoglienza, sono alla base della civiltà, e fanno bene non solo alla tavola, ma anche a tutto il resto.
Così ora vi dò una ricetta molto conviviale. Bisogna stare tutti intorno al tavolo e intingere le verdure in un delizioso sughetto caldo e profumato, non bisogna discutere ma stare tranquilli, perché l’olio è bollente e ci si può far male.Quindi serenità e Bagna Cauda!
La Bagna Cauda è una ricetta piemontese che ambisce a diventare Patrimonio dell’Umanità, e sarebbe davvero bello che accadesse.
A seconda del numero dei commensali bisogna avere a disposizione un recipiente o due, con il fornellino stile Bourguignonne. Oppure se siete schifiltosi procuratevi tanti scaldini di coccio (quelli con l’apertura sotto per metterci una candela accesa, che terrà in caldo la bagna cauda), ma la prima soluzione è più divertente.
Per 12 persone occorrono:
5 o 6 teste d’aglio (la ricetta originale dice 12, ma a me sembrano veramente troppe, a meno che non dobbiate far fuori un vampiro), 6 bicchieri da vino d’olio extra vergine d’oliva, 6 acciughe rosse del Cantabrico, latte, un pezzo di burro fresco, pane, e le seguenti verdure: cardi gobbi del Monferrato, topinambur, peperoni, indivia, scarola, cuori di cavolo bianchi, cipollotti (io metto anche le carote e il sedano, ma non sono negli ingredienti ufficiali), patate lesse e barbabietole rosse già cotte, peperoni arrostiti, il tutto tagliato a piccoli pezzi o a bastoncini.
Sbucciate gli spicchi d’aglio togliendo l’eventuale germoglio verde interno e metteteli in un pentolino, poi copriteli di latte fresco e fateli bollire piano piano per una quindicina di minuti. In una pentola di coccio, messa su fuoco dolcissimo e con la retina di protezione, versate un bicchiere d’olio, poi quando sarà caldo immergetevi le acciughe che avrete precedentemente dissalato e diliscato (si mettono a bagno per una decina di minuti, poi si tolgono le lische e si lavano in acqua, oppure nel vino rosso). Sgocciolate l’aglio cotto dal latte rimasto e amalgamatelo agli altri ingredienti, schiacciando tutto dolcemente con un cucchiaio di legno fino a che il composto assume una consistenza cremosa. Aggiungete l’olio rimasto e fate cuocere a fuoco bassissimo per 20/30 minuti, aggiungendo alla fine, per un sapore più delicato, il pezzo di burro fresco.
Ora preparate la tavola, mettendo al centro la pentola (o le pentole) da Bourguignonne, con il fornellino acceso, e attorno tutte le verdure in più vassoi per facilitare gli ospiti, il pane tagliato a tocchetti e le forchettine lunghe accanto a ogni piatto. Aprite del buon vino piemontese rigorosamente rosso e versate l’intingolo nella pentola (fate attenzione, è come l’olio bollente che dagli spalti dei castelli medioevali veniva rovesciato sopra gli assedianti), e fate sedere i commensali, che cominceranno a intingere le verdure e i pezzetti di pane nel profumatissimo intingolo. Non si deve sopraffare il vicino, inforchettandolo se vi passa davanti, né si deve addentare un pezzo di verdura per rimetterlo poi nella bagna cauda: insomma, questa ricetta ha bisogno di gente civile o che cerca di esserlo, e alla fine si crea sempre una divertente confusione che affratella i commensali, e poi è buonissima!
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