Il 2018, che volge ormai al termine, è stato l’anno delle celebrazioni, in Italia e nel mondo, del grande Gioachino Rossini, a 150 anni dalla morte. Il Maestro era nato il 29 febbraio 1868 a Pesaro, nell’allora Golfo di Venezia, battezzato Giovacchino Antonio Rossini. Un grande vanto, per lui, nascere in anno bisestile e proprio in quel giorno in più, il 29 febbraio, che gli dava il diritto di compiere gli anni solo ogni quattro e quindi restare più giovane dei coetanei. Un altro vezzo era quello di firmare “G. Rossini” le composizioni e di volere la grafia del nome con una sola “c” Gioachino, come se fosse Jacob, più tedesco che italiano. Gli piaceva essere definito il Tedeschino, per la precisione della scrittura nel pentagramma e – senza dubbio – per l’adorazione dichiarata per Mozart, per il bel canto e per l’orchestrazione perfetta. Visse alla grande, sposò più donne, fu considerato un gran conservatore, era goloso di prodotti italiani così come di foie gras e vini francesi, scrisse un numero esorbitante di opere, in un numero esiguo di anni, quante? una l’anno? prima di ritirarsi nella villa di Passy, a Parigi. Si dice che avesse esaurito l’ispirazione e la vena artistica, ma questo è discutibile. Qui riceveva il bel mondo, frequentava la nobiltà, continuando a scrivere e a suonare musica – tanta musica – per sé, per gli amici e non più per il pubblico che lo aveva reso famoso e pertanto ricchissimo.
Uno dei torti che non gli si dovrebbe fare, e che invece molti gli fanno, è quello di considerarlo una sorta di ambasciatore del made in Italy. Come fosse pizza o mozzarella. Alla sua morte, l’Italia non era fatta, tutta intera almeno, visto che a Roma il Papa ancora resisteva all’unificazione. E le sue passioni patriottiche e liberali, da qualcuno messe in discussione, non servono per giudicare il suo genio e la sua musica. Soprattutto perché la sua musica è universale, anche se italiana, tanto più moderna della sua epoca e delle seguenti, capace di anticipare persino il gusto musicale novecentesco. Perché considerarlo solo italiano, quando in vita fu europeo e, dopo morte, patrimonio della musica mondiale?
È probabile che l’Opera lirica sia la migliore testimonianza del genio italiano, il melodramma – in fondo – fa parte dell’indole nazionale, ma la musica di Rossini è quanto di più lontano ci sia dal significato retrivo della parola. Una fantasia continua, una gioia, una sorpresa dopo l’altra per ogni nota che scorre; un’allegria contagiosa, una gioia di vivere, nelle opere buffe; una fantasia astratta e una capacità di approfondimento dei caratteri dei personaggi, nelle opere serie.
È bene ricordare che la riscoperta dell’opera omnia di Gioachino Rossini si deve al perugino di nascita Gianfranco Mariotti che, dopo aver assistito nel 1969 alla Scala di Milano alla prima esecuzione dell’edizione critica de Il barbiere di Siviglia, diretta da Claudio Abbado, decise di abbandonare la carriera di medico per dedicarsi all’impresa. La cura della pubblicazione, volta a ristabilire la forma originale del Barbiere, era stata affidata dall’editore Ricordi ad Alberto Zedda, col compito di depurare la partitura da ogni ingerenza non autentica entrata nella consuetudine esecutiva. Nel 1980 il Comune di Pesaro istituì il Rossini Opera Festival, affidando a Mariotti il recupero di tutto il patrimonio sommerso del compositore. Oggi l’opera è compiuta e Mariotti e il Rof hanno restituito al mondo tutte le sue opere; non solo al mondo dei musicisti eruditi, ma a quello del pubblico che affolla ogni teatro in cui si mette in scena un’opera di G. Rossini.
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