Quando Gioachino Rossini nacque, a Pesaro, il 29 febbraio 1792, l’Italia come stato non c’era; quando morì, a Passy, nei pressi di Parigi, il 13 novembre 1868, l’Italia aveva vissuto il Risorgimento, si era unita, ma Roma e l’intera regione laziale, dove il Papa resisteva come Re, non erano parte del suo territorio. La biografia di Rossini relativa al periodo risorgimentale è molto controversa, le fazioni di chi lo vede come liberale e di chi, invece, lo vede come un sordo reazionario, si contrappongono. Le dispute se il musicista sia stato un patriota, un liberale, che allora significava democratico, o un codino, un reazionario conservatore, sono state molte. Senza dubbio, a 150 anni dalla morte, è possibile leggere la vita e le opere rossiniane in un altro modo, con una lente molto più artistica, senza rinunciare a una interpretazione politica più acuta.
Rossini è un musicista eccelso, riconosciuto in ogni parte del mondo, dove praticamente ogni giorno, in qualche teatro di qualche città, si “dà” una sua opera. A differenza di Giuseppe Verdi, è stato a lungo dimenticato e molte delle sue opere (quasi tutte, specialmente quelle serie) sono uscite per anni dal repertorio. Insieme al Guglielmo Tell, la cui ouverture si orecchia perfino nella sigla della serie western americana Bonanza degli anni ’60 e ’70, solo il Barbiere di Siviglia è sempre rimasto in repertorio, magari sottovalutato e considerato per gli aspetti divertenti, quasi fosse un’operetta. Il gusto era cambiato, probabilmente la difficoltà di esecuzione e di canto rendevano difficile allestire le opere con interpreti veramente, e sempre, all’altezza. Per nostra grande fortuna, la cosiddetta Rossini Renaissance, da una trentina d’anni, ha restituito all’esecuzione teatrale tutte le sue opere. La fama di Rossini è sostenuta anche da una nutrita serie di aneddoti, con una netta prevalenza di quelli legati alla cucina e alla gola, giudicata da alcuni forse eccessiva. I suoi ritratti ce lo mostrano sempre in carne e divertito, pur conoscendo una sua certa disposizione alla depressione e alla malinconia. Altri aneddoti, indagati, approfonditi, confermati, o smentiti, da storici e musicologi, riguardano lo spessore politico della sua esistenza materiale e della sua musica. All’anno 1815, cruciale per le sorti di molte nazioni europee, per le popolazioni e le case regnanti, è legato uno dei fatti che hanno giudizi incerti sull’atteggiamento politico di Rossini. È l‘anno della Restaurazione, termine che indica il processo di ristabilimento del potere dei sovrani assoluti in Europa e il tentativo, dopo le sconfitte militari di Napoleone, di ritornare all‘Ancien Régime, antecedente alla Rivoluzione francese. Il Congresso di Vienna era iniziato sul finire del 1814 con le grandi potenze intenzionate a ridisegnare i confini degli stati europei e a re-insediare i regnanti detronizzati come se nulla fosse accaduto.
Nel 1815, Rossini aveva avuto i primi successi musicali, nei teatri di Venezia e di Milano. In quello stesso anno era tornato a Bologna, nella casa dei genitori, come faceva solitamente tra una tournée e l’altra. Qui rimase coinvolto dai fatti politici seguiti al proclama che Gioacchino Murat, come Re di Napoli, aveva lanciato da Rimini per incitare gli italiani alla ribellione contro gli Austriaci. In occasione del proclama, Rossini compone un Inno dell’Indipendenza, definito poi la Marsigliese italiana. L’esecuzione del 15 aprile ha un successo straordinario; sul podio lo stesso autore, ma non rimane traccia della musica, mentre il testo, attribuito al poeta Giambattista Giusti, inneggia all’Italia unita. I maligni sostengono che la musica fu fatta sparire dallo stesso Rossini, per eliminare una prova di reato per le autorità austriache. Poco dopo, Murat viene sconfitto a Tolentino e Napoli tornò sotto il Regno borbonico. Rossini si trovava in un’imbarazzante trappola: si doveva recare a Napoli, chiamato dal celebre impresario Domenico Barbaja, e doveva lasciare Bologna, tornata sotto il controllo degli Austriaci. I detrattori narrano che uscì d’impiccio offrendo al comandante delle truppe austriache, generale Steffanini, la musica di quello stesso Inno con un testo differente che rendeva chiaro omaggio a Francesco d’Austria. In cambio, chiedeva il rilascio del passaporto per Napoli. Il generale Steffanini glielo concesse, ma con l’annotazione «per il signor Gioacchino Rossini, patriota senza importanza». Va da sé che gli storici sono divisi sulla veridicità dell’aneddoto che lo stesso Rossini ha smentito sdegnosamente, con lettere agli amici, scritte, però, dopo circa cinquant’anni dall’epoca dei fatti.
Ma perché non vedere nella vicenda anche il lato temerario e burlesco? Davanti alle truppe austriache, schierate in alta uniforme e pennacchi, il generale Steffanini compiaciuto si appresta all’ascolto della banda militare. Non è scemo e magari si intende pure di musica, visto che, dopo le prime note, le sole cambiate da Rossini, fa un balzo sulla poltrona urlando qualcosa del genere: «Non dell’inno a Francesco I si tratta, ma della Marsigliese italiana!». Forse è vero che Rossini si burlasse degli Austriaci e dei suoi generali, ma è quasi sicuro che non tenesse in gran conto l’accusa dei connazionali di essere un patriota pavido.
E gli austriaci, pur diffidando dei suoi sentimenti, insistevano a chiedere musica agiografica al musicista di fama. È l’anno 1822, Rossini ha lasciato Napoli per Vienna, dove l’agente Barbaja ha organizzato una stagione rossiniana che ha avuto un successo grandioso. È lo stesso anno di un Congresso delle Potenze che si svolge a Verona. Il Cancelliere Metternich chiede musica d’occasione; Rossini aderisce alla richiesta. Il politico sa bene che Rossini è l’autore di opere con accenni patriottici come l’Italiana in Algeri e La donna del Lago, quest’ultima, soprattutto, intrisa di motivi insurrezionali. Sa anche bene, però, che la fama di Rossini è altissima e che averlo dalla propria parte sarebbe meglio. Ebbene, il 24 novembre 1822, all’Arena di Verona, venne eseguita la cantata dal titolo inequivoco: La Santa alleanza. Del resto tutti i musicisti si dovevano assoggettare a scrivere musica per i potenti e nemmeno Rossini si poteva facilmente sottrarre. Del resto il richiamo per la vita in Francia si faceva già sentire. L’uomo si sentiva europeo più che patriottico, musicista più che militante.
Un altro aneddoto, datato 1846, ci dice qualcos’altro delle idee politiche di Rossini. Nel giugno di quell’anno fu eletto pontefice, col nome di Pio IX, Giovanni Maria Mastai Ferretti. I liberali bolognesi esultarono e chiesero al Sacro Collegio dei cardinali, con una petizione firmata dallo stesso Rossini, le riforme nello Stato pontificio. Non immaginavano che il Papa che appariva «liberale» ben presto avrebbe deluso le attese. E infatti Gioachino Rossini compose Il Grido di esultazione riconoscente alla paterna clemenza di Pio IX, più semplicemente noto come Inno popolare a Pio IX. L’esecuzione si svolse il 23 luglio del 1846, sulla scalinata di San Petronio in Piazza Maggiore a Bologna, dopo la notizia dell’editto del perdono papale a ribelli. Che dobbiamo pensare del fatto che Rossini, come faceva spesso, usasse per l’inno al Papa musica presa da opere precedenti? E che le note venivano pari pari da La Donna del lago? Opera che quasi ad ogni scena parlava di amor patrio, di guerra agli oppressori, di liberazione. La vicenda era ambientata nella Scozia del XVI secolo e vedeva, nel finale, i ribelli sconfitti ma salvati dalla clemenza del sovrano. Calzava a pennello.
Sembra quindi che non si potesse troppo dubitare di Rossini come patriota liberale; l’immagine pubblica poteva apparire ben salda, anche nella sua agitata Bologna. Niente affatto: nel 1848 successe un fatto apparentemente minore (un aneddoto, appunto), ma che il musicista visse come uno sgarbo grave che non dimenticherà mai. Il 26 aprile 1848 il marchese Filippo Gualterio, intendente generale delle legioni civiche e dei volontari dello stato pontificio, pubblicò un invito a tutti i cittadini di Bologna buoni per le armi di accorrere ed aggregarsi agli Anconetani e ai Romani in marcia contro gli Austriaci. I cittadini facoltosi erano invitati a fare «spontanea offerta di 18 cavalli» per l’artiglieria.
Rossini si privò di due dei quattro cavalli che usava per la carrozza. Si sparse la voce che il ricco, ricchissimo, Rossini avesse dato i due cavalli solo perché erano vecchi e bolsi, per nulla adatti alle necessità militari. Un vecchio retrogrado, spilorcio, che andava additato al popolo urlante sotto il balcone del Maestro, che pur si era affacciato a salutare la folla urlante, credendo di essere ringraziato. Poco valevano le scuse che i cavalli li aveva scelti lo stesso capitano dell’artiglieria in cerca di focosi destrieri. Era per tutti un vecchio codino. La scena la si potrebbe anche immaginare «buffa», come quelle che Rossini metteva in musica e in scena, tranne che Gioachino e la seconda moglie, la francese Olimpia Pellissier, il giorno dopo, partirono filati per Firenze, sdegnati e forse impauriti. Potevano dare soldi, e molti, alla causa, ma il Maestro non si sentiva adatto a fare il capopopolo, come ebbe a dichiarare nel suo epistolario di molti anni dopo. Inizia la depressione? Il Maestro ha 56 anni, soffre di insonnia e inappetenza (questo pare proprio un dramma vero per lui); e poi se i cavalli erano buoni per la sua carrozza, perché non potevano essere buoni per la truppa? La differenza che sembra di poco conto, ha invece una sostanza «filosofica», e consiste nel fatto che Rossini non amava per niente la velocità; i cavalli bolsi erano buoni per «andare piano» in carrozza; che importanza aveva se non erano buoni per la guerra?
La sua musica era autonoma dalla politica e lo aveva dimostrato con i fatti. Le stesse note potevano stare nell’ouverture di un’opera buffa come in quella di un’opera seria, e potevano servire sia un partito sia quello contrario; le fanfare possono essere rivoluzionarie e restauratrici, l’arte sottosopra. Rossini può essere sospettato «soggettivamente», cioè per la sua personalità, che può essere ambigua, ma le sue opere hanno valore «oggettivo»; appartengono ad entrambi i partiti, quello liberale e quello restauratore, perché la (sua) arte è perfettamente autonoma. Gioachino Rossini era un credente nella religione della libertà, non praticante magari, ma era praticante e fedele della religione musicale. Un uomo moderno, disilluso dall’umanità del tempo, disgustato per un’epoca che lui vedeva come socialmente e artisticamente barbara, lontana dal suo ideale del fare l’arte per l’arte, non soggetta a imperativi morali e sociali, lontano quindi dagli imminenti ideali interventisti del Romanticismo.
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