Avvicinare i bambini all’arte non è facile. Farlo attraverso l’arte stessa ancor di più. A meno che non si possieda il talento di far prendere vita alle immagini impresse su carta con un tocco di matita. Daniela Sbrana, in questo, è maestra. «Salvador Dalì. C’era una volta un visionario…», per Libri Volanti – Istos Editore, è l’ultimo lavoro dell’illustratrice pisana, ormai un’habituée di Palazzo Blu e delle sue mostre.
Il libro sarà presentato domani, venerdì 18 novembre, alla libreria Blu Book (via Toselli 23), alle 19.
Partiamo proprio da qui. Daniela Sbrana e Palazzo Blu: un legame ormai indissolubile con il terzo libro sull’artista che espone nel prestigioso museo cittadino, dopo Modigliani e Toulouse-Lautrec. Com’è iniziato?
«Tutto è nato allo scopo di avvicinare i bambini all’arte e in particolare ai suoi protagonisti, dei quali volevo raccontare non solo le opere e lo stile ma anche le tappe principali del loro percorso biografico, senza edulcorarne i fatti o reinventare una storia diversa, in modo da spiegare come questi personaggi sono diventati quelli che oggi conosciamo. Così, con l’editore abbiamo pensato che sarebbe stato interessante iniziare dagli artisti ospitati di volta in volta a Palazzo Blu, cosicché anche i bambini, visitando la mostra, potessero avere una loro ‘guida’ illustrata».
Un assaggio dell’ultimo lavoro, che ha come protagonista il «visionario» Salvador Dalì. Cosa racconti dell’artista spagnolo?
«Per Dalì, così come per la realizzazione degli altri tre libri, sono partita dallo studio della biografia e delle opere dell’artista, cercando di coglierne i tratti salienti della vita e possibilmente qualche aneddoto curioso. Dopodiché ho scritto la filastrocca, forma scelta al fine di rendere la storia più accattivante e facile da recepire, e infine ho realizzato il layout del libro e le illustrazioni. In generale, ciò che mi preme di più è raccontare il mondo dell’artista in questione in modo leggero ma veritiero, mettendone in luce l’interiorità, il temperamento e le passioni sin dall’età infantile. Tutti i testi sono stati poi tradotti in inglese da Fiona Meert, insegnante madrelingua, in modo da rendere il libro fruibile da un pubblico più vasto».
Perché lavorare per e con i più piccoli?
«La risposta risulterà banale, ma il motivo principale sta nel fatto che i bambini saranno gli adulti di domani e per questo si deve puntare molto sulla loro formazione, rendendoli partecipi anche di argomenti apparentemente lontani da loro. In particolare, tornando al mio ambito, credo che l’insegnamento di materie come arte e immagine, disegno, la lettura stessa, abbia bisogno di essere potenziato e percepito come elemento fondamentale per la formazione dell’individuo, in quanto i sentimenti e l’empatia sono racchiusi proprio nella sfera cerebrale da cui si sviluppa la creatività di ognuno di noi. Ed è bene farlo sin da subito, perché i più piccoli hanno una capacità ricettiva enorme e una curiosità infinita. C’è anche un altro motivo per il quale lavoro volentieri con i bambini: dicono sempre quello che pensano».
Qual è la tua tecnica preferita?
«Matita nera e bianca, base di gesso e colori a olio».
Come e perché hai scelto la strada dell’illustratrice?
«‘A che serve un libro senza (dialoghi né) figure?’, diceva Alice. Come darle torto, dico io! Il fatto è che il rapporto tra testo e immagine mi ha sempre affascinato, fin da quando, in prima elementare, ho cominciato a sfogliare il libro di testo ricco di racconti e filastrocche illustrate. Lo conservo ancora come un cimelio prezioso. La passione per l’illustrazione è cresciuta con me e ho cercato di approfondire questa attività fino a renderla un vero e proprio lavoro. Oggi concepisco l’illustrazione come una forma di rappresentazione non descrittiva, che ha la funzione di rendere più chiaro il testo evocandone il significato e raccontando quindi il ‘non detto’ delle parole».
Quali sono i tuoi riferimenti artistici?
«Sarebbe impossibile citarne solo alcuni, è un po’ come quando mi chiedono qual è il mio colore preferito: non lo so, alcuni mi piacciono allo stesso modo, e poi dipende a quale scopo dovrei usarli. E poi rispondo sempre nero, che dentro ce li ha tutti, come il bianco. È che in me convivono tante cose. Le ombre di Leonardo, i silenzi di Vermeer, la fluidità di Klimt, le espressioni di Norman Rockwell, le stilizzazioni di Bansky, la simpatia mista a tenerezza di Quentin Blacke, la nebulosità della contemporanea Possentini, la straordinaria originalità di Daniel Egneus. Ma anche il fascino delle fotografie vintage, le vecchie immagini in bianco e nero, i fotogrammi dei miei film preferiti, e potrei andare ancora avanti. Sono riferimenti che mi accompagnano quando disegno, ma che cosa emerga di tutto questo dai miei lavori non saprei, forse tutto o forse, più probabilmente, niente».
Dove ti vedi tra cinque anni?
«Difficile dirlo, ormai ho seri problemi anche a vedermi dopo poche ore! Vivere alla giornata è diventato il nuovo concetto di stabilità. In ogni caso, mi vedo sicuramente a disegnare – quella ormai è una condizione perenne – a dipingere di più e magari a insegnare ai ragazzi. Chi lo sa, spero solo di raggiungere obiettivi più concreti, soprattutto dal punto di vista economico. Il fatto è che gli artisti, di solito, diventano ricchi ‘dopo’…».
Francesco Bondielli
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