Aleksandr Skrjabin è una delle figure più misteriose e complesse all’interno del panorama musicale degli centocinquant’anni, tanto che l’autore ha ancora molto da offrire agli studi critici. Per la verità – nonostante sia indiscutibilmente riconosciuto come uno dei compositori più interessanti tra quelli vissuti a cavallo del XIX e XX secolo – è stato affrontato metodicamente solo in recenti anni: esistono moltissimi studi su Skrjabin, ma il compositore moscovita ha conosciuto un vero e proprio revival solamente nel corso degli ultimi venticinque anni, in particolare per quanto riguarda l’Italia; lo stesso dicasi per la sua presenza nelle sale da concerto.
Il corpus prodotto da Skrjabin è notevole: oltre alla produzione musicale esso consta anche di un notevole gruppo di scritti di stampo mistico, filosofico e teosofico; in un simile agglomerato, ove il pensiero filosofico influenza direttamente quello musicale, si individua quella che la studiosa Cristina Ceroni nel suo La sinestesia nella poetica di Skrjabin definisce «una poetica musicale di tipo mistico-religioso» ove si rintracciano «ampi richiami a Nietzsche e Schopenhauer». Risulta evidente che in Skrjabin pensiero speculativo e musicale si sviluppino parallelamente, anzi, in modo inscindibile; pertanto un qualsiasi studio sulla poetica del compositore non può prescindere dall’analisi attenta di una di queste due componenti. Piuttosto, un’analisi “incrociata” di pensiero musicale e filosofico metterà in luce un aspetto fondamentale della poetica di Aleksandr Skrjabin: la sinestesia, vale a dire il fenomeno psicologico indicante una contaminazione sensoriale. Nel nostro caso, il compositore ha rivolto la propria attenzione agli aspetti sinestesici teorizzando peculiari associazioni tra suoni e colori (in questo caso, in campo medico, si parla più propriamente di «cromestesia»). La sinestesia è talmente centrale all’interno della poetica di Skrjabin non solo da godere di vasta fama ma anche di essere popolarmente ritenuta una caratteristica (quasi) esclusiva del compositore moscovita; sebbene sia forse l’autore che più ha impiegato elementi sinestesici nei propri lavori, non è stato certo l’unico, anzi: soprattutto alla fine dell’Ottocento e nel primo Novecento rapporti sinestesici tra suono e colore sono stati importante oggetto di studio da parte di alcuni dei più importanti compositori e pittori, dal Mikalojus Konstantinas Ciurlionis a Nikolaj Rimskij-Korsakov, passando per Vasilij Kandinskij e Arnold Schönberg. Certamente emblematico il caso di questi ultimi, che dedicarono molta della propria attività all’esplorazione delle sinestesie tra suono e colore; a questo proposito può essere interessante conoscere l’epistolario selezionato in questo senso di Schönberg e Kandinskij, raccolto nel volume Musica e pittura.
Nel suo Kandinskij e Skrjabin (1996) il compositore e musicologo Luigi Verdi osserva come nella poetica skjabiniana la sinestesia sia da intendersi non solo come fusione tra suono e colore, tra il senso auditivo e quello visivo, ma come una fusione complessiva di tutte le arti; in questa ottica è difficile non scorgere l’ombra di Richard Wagner e della Gesamtkunstwerk («l’opera d’arte totale»), sebbene la fusione teorizzata da Skrjabin sia in effetti differente da quella immaginata dal maestro tedesco. Prima di giungere al nodo fondamentale per quanto concerne il compiuto affermarsi della sinestesia nell’opera di Skrjabin, cioè in concomitanza col Prometeo op. 60, è forse miglior cosa rintracciare il punto di partenza della ricerca sinestesica. Luigi Verdi e Cristina Ceroni sono concordi nell’individuare il primo significativo esempio sinestesico skrjabiniano nel poemetto che il compositore scrisse unitamente alla sua Sonata per pianoforte n. 4 op. 30 in fa diesis maggiore risalente al 1903 e – come non manca di sottolineare la Ceroni – «intriso di riferimenti al Tristan und Isolde di Wagner»:
Persa lontano eppure distinta
Una stella brilla dolcemente.
Che meraviglia! Il mistero bluastro
Del suo bagliore
Mi invita, mi culla.
O portami a te, stella remota!
Inondami di raggi frementi
Dolce luce!
Ardente desiderio, voluttuoso e anelante eppure dolce
In eterno a nessun altro scopo
Vorrei ardire
Ma no! Volteggio in balzi gioiosi
Liberamente prendo le ali
Danza folle, gioco divino!
Inebriante, splendente!
Verso di te, stella adorata
Mi guida il mio volo
Verso di te, liberamente creata per me
Per il mio scopo!
Mio volo liberatorio!
In questo gioco
Puro capriccio
Talvolta ti dimentico
Nel vortice che mi porta
Volteggio aereo dai tuoi raggi lucenti
Nella follia del desiderio
Tu ti dissolvi
Oh scopo distante
Ma sempre splendi
Come in eterno ti desidero!
Tu ti espandi, Stella
Ora sei un sole
Sole fiammeggiante! Sole del trionfo!
Avvicinandomi a te col mio desiderio
Mi immergo nelle tue onde mutevoli
O dio gioioso
Mi imbevo di te
Mare di luce
Mio Io-di-luce
Ti sommergo!
È interessante comparare questo testo con un passo dell’opera wagneriana, da cui Skrjabin ha attinto a piene mani:
Isotta (guardando senza comprendere, come straniera a tutto, fissa finalmente su Tristano)
Dolce e calmo,
Sorridente,
Ei dischiude
Gli occhi belli.
Nol vedete?
Come chiara
Fiamma ei brilla:
Viva stella in alto ciel!
Nol vedete?
Come fiero
Balza il core?
Sgorga in lui
Qual magico fonte!
Sul suo labro
Calmo appar
La dolcezza
Del sorriso.
Dite! Ah!
Non lo vede alcun?
Odo io sola
Questo canto?
Voce arcana,
Voce pia.
Calma, pura
Come il pianto,
Dolce incanto,
Inno santo,
Che penètra
L’esser mio,
Risuonando a me d’intorno?
Cresce appressa
Già m’invade.
Sei tu l’onda
De le brezze?
Sei tu nube
Fatta d’incensi?
Che m’inonda.
Che mi avvolge.
Ch’io ti aspiri!
Che in te spiri!
In te immersa
E sommersa
Sento l’esser mio svanire!
Ne l’immenso ondeggiar,
Nel crescente clangor.
Nel fulgor
D’una luce immortal
Attratta.
Rapita.
Me smarrir!
Sommo ben!
Analoghe forze sinestesiche legano i due testi alle rispettive musiche, in modo sicuramente diverso (dato che il primo testo appartiene a una Sonata mentre il secondo a una rappresentazione drammaturgica), ma con eguale risultato: si tratta di un’unica opera d’arte ed è impossibile separare la componente testuale da quella musicale.
Come anticipato sopra, la Quarta Sonata altro non fu che il primitivo manifestarsi del nuovo aspetto della poetica skrjabiniana: da quel 1903 la ricerca sinestesica conobbe una intensa climax che condusse il compositore al monumentale Prometeo. Poema del fuoco op. 60 del 1909, dove Skrjabin si propose per la prima volta di fondere in unica soluzione le percezioni del nervo auditivo e di quello visivo. L’opera sinfonica appartiene alla produzione dell’ultimo Skrjabin e costituisce un ideale trittico con Il poema divino op. 43 del 1904 e con Il poema dell’estasi op. 54 del 1908 e rappresenta anche l’ultimo lavoro orchestrale di Skrjabin prima della prematura scomparsa a 43 anni, poiché tutte le composizioni successive saranno per pianoforte solo.
La gestazione fu molto travagliata, fatto non insolito per Skrjabin: concepito nell’aprile 1909 a Bruxelles, Prometeo tardò a mostrarsi concretamente al suo autore; inizialmente Skrjabin ebbe solo l’idea di una grande composizione sinfonica senza riuscire ad abbozzarne una forma concreta, piuttosto le prime intuizioni erano soltanto degli accordi o dei brevi incisi melodici (e qui il pensiero, inevitabilmente, corre subito al celebre «accordo mistico») e notò che determinate aggregazioni sonore facevano nascere in lui reminiscenze di colori. Il tratto caratterizzante dell’opera, ossia l’impiego di luci e colori, nacque in un secondo momento quando venne a sapere che il pittore e incisore inglese Wallace Rimington aveva costruito uno strumento a tastiera basato su particolari associazioni di suoni e colori. Come riporta Luigi Verdi, Skrjabin era solito frequentare «i membri della Società teosofica belga e in particolare il pittore Jean Delville, col quale aveva stretto una solida amicizia; ospite nello studio del pittore, Skrjabin notò un quadro che rappresentava il personaggio di Prometeo, il mitico portatore di fuoco; […] Skrjabin decise di dedicare a Prometeo la sua nuova composizione e pregò l’amico Delville di disegnarne la copertina della partitura; si dedicò poi alacremente alla composizione, lavorando tutta l’estate e l’autunno del 1909. Rientrato a Mosca nel gennaio 1910, Skrjabin completò l’orchestrazione del Prometeo nell’ottobre dello stesso anno: la grande orchestra, composta di un centinaio di elementi, comprende i legni a 4, 8 corni, 5 trombe, 3 tromboni, tuba, 2 arpe, organo, pianoforte, celesta, tastiera a colori per la parte “Luce”, una nutrita schiera di percussione, coro misto a quattro parti, archi (almeno 60)». L’impianto orchestrale del Prometeo differisce da quello degli altri due Poemi non solo per la presenza del coro e del clavier à lumières (tastiera a colori), ma anche per quella del pianoforte e dell’organo: l’organo appare solo alla fine dell’opera assieme alla compagine corale, mentre il pianoforte riveste un ruolo concertante di grande rilevanza.
È facile intuire che l’esecuzione del vivo di questa monumentale pagina comportasse diversi problemi, primo fra tutti quello dei colori e delle luci. Come anticipato sopra, il compositore aveva previsto la partecipazione del clavier à lumières, uno strumento che – in teoria – avrebbe dovuto proiettare fasci di luce colorati a seconda della particolare nota o situazione armonica contingente. Come è facile immaginare, l’idea non diede alcun frutto. Ci furono diversi tentativi volti a creare uno strumento adatto: il primo che cercò di costruirne uno fu il fotografo e insegnante di elettromeccanica moscovita Aleksander Mozer, tuttavia il suo clavier si limitava solamente ad accendere alcune lampadine colorate e non venne mai preso in considerazione da Skrjabin; non andrò meglio a Wallace Rimington, colui che già nel 1895 aveva costruito uno strumento simile (chiamato organo a colori) e che è da considerarsi “responsabile” della componente cromatico-visiva dell’opera. Rimington riadattò per l’occasione lo strumento costruito in precedenza ma nemmeno questo soddisfece Skrjabin. Alla fine non se ne fece nulla e il Prometeo fu tenuto a battesimo il 15 marzo 1911 senza la componente visiva e lo stesso Skrjabin non riuscì mai a vedere concretamente realizzata quella che oggi definiremmo una delle prime opere multimediali. Quella che può apparire una lacuna superficiale fu in realtà gravissima se si pensa che – a ulteriore dimostrazione della fondamentale importanza dell’aspetto cromatico-visivo nel Prometeo – il primo pentagramma presente nella partitura, affidato al clavier à lumières, riporta la dicitura Luce, proprio come se questa fosse uno strumento dell’orchestra a tutti gli effetti.
Un primissimo tentativo di eseguire il Prometeo come immaginato dall’autore avvenne nel maggio 1915 – vale a dire esattamente un mese dopo la morte di Skrjabin – alla Carnegie Hall di New York; tuttavia, come avvenne già in precedenza, i risultati furono assai deludenti: le fonti dell’epoca parlano di luci proiettate su uno schermo bianco senza alcuna connessione con la musica e che riuscivano solo nell’intento di distrarre il pubblico. La prima vera esecuzione del Prometeo con un apparato tecnico in grado di seguire lo sviluppo musicale fino a fondersi con esso avvenne soltanto nel 1962 a Kazan’, in Tartaria, grazie alle apparecchiature predisposte dal locale Istituto d’Aviazione. Bulat Galeyev, uno dei curatori dell’evento, ricorda così l’esecuzione: «Buio. Il pubblico ammutolì. Centinaia di persone in attesa e, come un grido, un sottile raggio abbagliante colpì il bordo dello schermo di proiezione. Si muoveva lungo la superficie. Il lento, timido raggio all’improvviso si innalzò e si diffuse […]. Si udì il suono delle prime note profonde, sommesse. E improvvisamente lo schermo di proiezione si unì a loro, cominciò a cantare. Una luce brillava e diventava sempre più luminosa, mentre le note suonavano più forte e più alte. E gli schermi rispondevano con un rosso abbagliante a quelle note, che sembravano non avere più abbastanza spazio nella sala, alle note di una lotta appassionata».
La peculiarità sicuramente più interessante del Prometeo è che in esso Skrjabin assegnò a ogni nota un significato specifico: «ogni colore non è fine a se stesso, ma – spiega Cristina Ceroni – rientra in un disegno superiore; ognuno di essi è simbolo ed essenza della leggenda di Prometeo, eco luminosa della situazione mitico-filosofica evocata dal Poema del fuoco». In altre parole esistono delle corrispondenze stabilite dallo stesso Skrjabin e organizzate in uno schema preciso (il seguente elenco è ordinato secondo il circolo delle quinte):
Do rosso: Volontà
Sol rosa-arancione: Gioco creativo
Re giallo: Gioia
La verde: Problema, Caos
Mi bianco-azzurro: Sogno
Si blu perlaceo: Meditazione
Fa# blu: Creatività
Reb viola: Volontà (dello Spirito Creatore)
Lab viola-porpora: Movimento dello Spirito in un problema
Mib grigio acciaio: Umanità
Sib bagliore metallico: Avidità (desiderio smodato) o entusiasmo
Fa rosso scuro: Differenziazione di Volontà
Questo complesso sistema non è stato pianificato “a tavolino” dal Skrjabin, ma seguiva la singolare esperienza propria del compositore che, come accennato sopra, riusciva spontaneamente ad associare suoni e colori, in altre parole aveva quello che si suole definire “udito colorato”. La cosa importante da capire su questo aspetto è che non si trattava di giustapporre suoni e colori: quelli individuati da Skrjabin erano dei suoni-colori, vale a dire che questi agglomerati cromo-sonori erano percepiti dal compositore come unità inscindibili e coese. Su questo tema esiste l’autorevole opinione dello psichiatra britannico Charles Samuel Myers che condusse alcuni studi anche nel campo della sinestesia: in uno di questi, dal titolo Two cases of synestesia e pubblicato nel 1914, tratta proprio di Aleksandr Skrjabin. Nel suo Kandinskij e Skrjabin Luigi Verdi si addentra ancor di più nella concezione cromoauditiva di Skrjabin e ne deduce che non è tanto il singolo suono a essere dotato di un colore caratteristico, quanto una certa aggregazione di suoni, indipendentemente dal timbro dello strumento che li emette. Il colore non è omogeneo, al suo interno contiene sfumature, ma può essere reso più luminoso da un movimento della musica più serrato, quindi da incatenamenti accordali sempre più vicini tra loro.
La visionaria idea di Skrjabin è avvertita dagli spettatori ancora oggi come estremamente audace, ma reca con sé una considerazione destinata ad incontrare grandissimo successo presso il pubblico e i compositori a lui posteriori (ma anche qualcuno dei contemporanei): basti pensare alla forte connessione tra colore e suono che si ha già in Debussy, nei sopracitati Schönberg e Kandinskij, il quale fu grandemente impressionato dal Prometeo, per non parlare della centralità di questo tema in un autore come Olivier Messiaen. La strada indicata da Skrjabin, insomma, era quella giusta.
lfmusica@yahoo.com
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