Brie parla di sé stesso, dei volti che riaffiorano nella sua memoria, per costruire un racconto universale e narrare il conflitto con il suo bambino interiore
Vogliamo parlarvi ancora del maestro argentino César Brie e di un’altra sua opera, che ha avuto il suo debutto nell’aprile di quest’anno a Modena e che ha fatto scalo anche in Toscana non più tardi di un mese fa: il monologo introspettivo e in gran parte autobiografico intitolato Ero.
Lo spettacolo è una riflessione sulle grandi parole che incontriamo nella vita, ma soprattutto sulla vita che sta dietro a queste grandi parole: Amore, Morte, Gioia, Tristezza, Dolore, Assenza.
Brie parla di sé stesso, dei volti che riaffiorano nella sua memoria, di suo padre, di sua madre, dei suoi fratelli, delle figlie, dei compagni incontrati in sessant’anni di vita, ma è un percorso, un viaggio a ritroso che risuona in ognuno di noi.
Brie ha molto da raccontare, parlando della propria esistenza: originario di Buenos Aires, arriva in Italia giovanissimo, a 18 anni, con il gruppo teatrale Comuna Baires, dal quale si separa nel 1975. Nel suo cammino artistico ha incontrato l’Odin teatret di Eugenio Barba, ha lavorato nel gruppo Farfa insieme all’attrice danese Iben Nagel Rasmussen, per poi tornare in America Latina, in Bolivia per la precisione, per fondare il Teatro de los Andes nel 1991.
Queste sono esperienze di una vita non comune, raminga, spesso sospinta dal vento del caso o dell’epoca storica. Ciononostante sulla scena Brie è semplicemente un uomo che si racconta agli altri, quasi come se parlando in modo così intimo di sé stesso potesse fare la confessione più universale di tutte.
La cifra stilistica del Teatro di César Brie è l’immagine, intesa sulla scena come unione tra forma fisica significante e testo. Anche Ero non si discosta da questo linguaggio. Così i vestiti, dolcemente appoggiati sulle sedie, in tre dei quattro angoli che compongono la scena, diventano i genitori e l’amata nonna con la quale l’attore conversa, con i quali si arrabbia, piange, ride e ricorda. E la bambola di legno nell’ultimo angolo è il bambino che Brie è stato e che ancora vive sotto i capelli imbiancati e le rughe del volto, nell’azzurro intenso dei suoi occhi vivi. Un bambino che l’attore prova ad ignorare e a zittire, addirittura a rinchiudere dentro una cassa di legno, che sembra proprio una bara, ma dal quale alle fine dovrà sempre tornare, mesto e angosciato, a chiedere perdono per averlo abbandonato e tradito.
Uno spettacolo dalla forza d’impatto impressionante e tagliente, non solo magistralmente costruito ma a portata di mano, uno spettacolo che sa arrivare a tutti, a patto che uno sia disposto ad ascoltare ciò che la scena evoca.
Siamo stanchi di chi considera il teatro un qualcosa riservato ad una piccola élite di sapienti e addetti ai lavori, tradendo così la vera essenza di quest’arte millenaria.
César Brie non lo fa e noi gliene siamo infinitamente grati per questo.
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