PISA – Venerdì 20 settembre si è conclusa la diciannovesima edizione della rassegna di musica sacra Anima Mundi con un programma che ha suscitato particolare interesse, non solo per la presenza di due dei Quattro pezzi sacri di Giuseppe Verdi, ma soprattutto per il monumentale Stabat Mater di Gioachino Rossini.
Dato il programma, è naturale che i protagonisti indiscussi della serata siano stati il coro e l’orchestra; in particolare il coro, vale a dire il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, ha potuto fregiarsi dei verdiani Pezzi sacri a cappella: le Laudi alla Vergine Maria per coro femminile – su testo di Dante, dal XXX Canto del Paradiso – e la celebre Ave Maria su scala enigmatica. Le esecuzioni a cappella sono armi a doppio taglio perché pongono in rilievo tanto i punti di forza quanto le criticità della compagine. E le criticità ci sono, specialmente nel settore donne, nettamente calanti (soprattutto i soprani). Buona la direzione di Corrado Casati, senza fronzoli, sicura e di buon sostegno al coro.
L’attenzione è però tutta puntata sul monumentale Stabat Mater per quattro soli, coro e orchestra di Rossini. Composizione difficilissima, è raro trovarla in cartellone ed è ancora più raro che venga eseguita bene; ad Anima Mundi presente come uno degli ultimi colpi di coda del centocinquantenario appena trascorso. Dopo il “riscaldamento” del coro fa finalmente il suo ingresso sui marmi della Cattedrale l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento diretta da Robert King. L’orchestra si è posta fin da subito come l’ago della bilancia nell’economia dell’esecuzione, sfoderando colori interessanti e un bel mordente, tanto che con il supporto dell’orchestra la prestazione del coro migliora notevolmente; tuttavia, sin dal primo numero musicale (Stabat Mater dolorosa, coro e orchestra) si nota che la bacchetta di King tende ad essere piuttosto corriva, una tendenza confermata anche nell’aria del tenore Cujus animan gementem. In questo caso la scelta di un tempo scorrevole può essere idealmente interessante ma i solisti meritano maggior riguardo, non si può pretendere che procedano a metronomo, soprattutto se dev’essere intonato un re bemolle acuto. Davide Giusti ha anche un timbro piacevole, ma vuoi per una certa legnosità nell’espressione, vuoi per la scelta poco felice del tempo, l’esecuzione non è delle più memorabili.
Brave Sabina von Walther e la giovane Aurora Faggioli, rispettivamente soprano e mezzosoprano, pregevoli tanto nel duetto Quis est homo, quanto negli assiemi e nelle arie individuali. A questo proposito, è bene segnalare l’aria del mezzosoprano – Fac ut portem – in cui la Faggioli ha potuto esprimere al meglio le proprie potenzialità espressive. La pur buona prestazione di Sabina von Walter nell’Inflammatus, uno dei pezzi più importanti dello Stabat, è purtroppo adombrata dall’approccio a dir poco frettoloso della direzione, tanto che più che un Inflammatus et accensus sembrava che fosse piombato un Dies irae nel bel mezzo dello Stabat.
Di buon risultato anche il basso Simón Ofila, specialmente nel solistico Pro peccatis, in cui non solo incassa perfettamente il feroce accompagnamento orchestrale, ma ne sfrutta la potenza drammatica per dar maggior risalto alla propria parte. Diversa è la questione per l’Eja, Mater fons amoris: interamente a cappella, all’inizio vede solo l’intervento delle voci maschili del coro e del basso solista (venendo presentato quindi con una plumbea tonalità cromatica), con una conduzione delle parti che ricorda ora qualcosa di simile al gregoriano ora al contrappunto italiano del Cinque-Seicento, con una tensione da far venire la pelle d’oca, ebbene non si può immiserire tutto questo con la scelta d’un tempo veloce, uccidendo de facto qualsivoglia espressività. Analoga errata scelta è stata compiuta anche per il Quando corpus morietur che, peraltro, è stato incomprensibilmente affidato al coro piuttosto che al quartetto dei solisti.
Il conclusivo Amen. In sempiterna saecula (in cui davvero sembra che Rossini evochi il fuoco che «solvit saeclum in favilla») ha un ultimo colpo di reni, anche perché il brano è scritto in modo tale che non può non trar fuori il meglio da ognuno degli esecutori: King finalmente si decide a prendere il toro per le corna, ma ormai è tardi. Lo Stabat Mater, di cui questa è stata l’esecuzione più veloce della storia, non riesce a scrollarsi di dosso questa inspiegabile fretta e questo alone di approssimazione: l’impianto era comunque molto buono, bastava davvero mettere un po’ più di cura e di attenzione nell’esecuzione per avere uno Stabat di gran lunga superiore; rimane invece l’amaro di un’occasione mancata.
Photocredit: La Reclame – Massimo Giannelli, courtesy of Anima Mundi
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