PISA – Stefano Vizioli mi accoglie nel suo ufficio, al terzo piano del Teatro Verdi. Si è insediato da quattro giorni, lo si nota dalle pareti e dalla scrivania che non portano alcun segno particolare della personalità nuovo direttore artistico per le attività musicali del teatro, sulla porta c’è ancora un cartello affisso dal suo predecessore («DIRETTORE ARTISTICO – Si prega di bussare»). Solo l’attaccapanni testimonia il cambio di inquilino, con appesi un cappotto, un cappello e una sciarpa.
Mi invita ad accomodarmi con i suoi modi gioviali e garbati; il suo modo di fare è piacevolmente poco formale, ma che allo stesso tempo trasmette grande carisma. Gli domando se preferisce prima una veloce panoramica sulle domande che ho preparato, ma mi interrompe subito: gli piace non conoscere le domande, non vuole compromettere la spontaneità e la verità della risposta. Apro il mio taccuino e gli avvicino il registratore.
Maestro, lei è certamente un uomo di talento e anche poliedrico: pianista (diplomato con 10 e lode al Conservatorio di San Pietro a Majella), affermato regista teatrale e proveniente da una lunga gavetta (maestro sostituto, maestro luci, maestro di palcoscenico, nonché percussionista addetto alla campana in un Rigoletto). Avendo una così solida – e fortunata – carriera alle spalle, cosa l’ha spinta a rispondere al bando di direttore artistico per le attività musicali del Teatro Verdi?
«Forse è stato questo amore per le sfide. Quando uno fa questo mestiere, quindi anche il regista, deve sempre tenere d’occhio il budget, la programmazione, la scelta del cast, i rapporti con gli artisti. Non è solo genio e sregolatezza, in un mondo pseudo creativo e un po’ astratto, in realtà devi essere con i piedi per terra, soprattutto nell’aspetto organizzativo: i giorni di prova sono sempre di meno, i budget sono sempre più scarsi… Come regista ho questa storia importante di incontri e rapporti internazionali perché ho lavorato un po’ dappertutto, ma volevo mettere al servizio di un’istituzione questa esperienza. La cosa che mi ha particolarmente colpito è che non è stata una nomina politica – come spesso succede in Italia – o perché sei “amico di”. C’è stato un bando e io, sollecitato anche da alcuni amici che mi hanno segnalato il bando del Teatro Verdi, ho deciso di fare la domanda pensando: “Tanto figurati se mi prendono”. Poi c’è stata una prima scrematura, una seconda scrematura, un colloquio (e anche lì ho detto “figurati se mi prendono”, dato che c’erano altri candidati molto validi), e poi è arrivata la nomina. C’è da dire che c’è una cosa che forse ha giocato un po’ a mio vantaggio, e cioè che nonostante sia un lavoro per me “nuovo”, la casa Verdi di Pisa – la chiamo “casa” piuttosto che “teatro” – è uno spazio che mi è molto familiare perché è legata a tante fortunate produzioni che ho fatto qui. Ritrovare le stesse mura, gli stessi macchinisti con qualche capello bianco in più (come me), è un po’ come un tornare a casa. È vero che è un mestiere nuovo e che sto ancora scoprendo (probabilmente facendo anche una montagna di passi falsi, come un elefante in un negozio di cristalli), ma è altrettanto vero che c’è un team straordinario in questo Teatro Verdi, che mi ha accolto a braccia aperte e che mi sta indirizzando verso un certo modus agendi e io gliene sono molto grato. Qualunque stupidaggine possa fare va imputata all’ingenuità, non a una malizia particolare, dovuta al fatto che devo ancora imparare, non “nasco imparato” come si dice a Napoli: ho sempre da imparare, qualunque cosa faccia, anche questo mestiere è un ulteriore tassello per un apprendimento e una presa di coscienza maggiore».
Come stava dicendo, per lei questo è una sorta di ritorno, dato che ha già lavorato in passato con questo teatro e ha portato sulle tavole del Verdi degli allestimenti che hanno riscosso ampi consensi e tutt’ora sono impressi nella memoria del pubblico (penso, ad esempio, all’Incoronazione di Poppea del 1993, all’Aci e Galatea del 2004 e alla Semiramide del 2005). Che ricordo ha di Pisa?
«Sono legatissimo a questa città, trovo che sia una delle più belle città del mondo. Quando mi arrabbiavo durante le prove e uscivo dal teatro furibondo, solo camminare per Pisa era come prendere una specie di tranquillante naturale: la bellezza della città, l’architettura, gli scorci, il lungarno, il cibo, la storia… Per me è molto importante anche il luogo, fondamentalmente mi piace proprio la città e proprio per questo vorrei che il teatro fosse considerato ancor di più casa della città e che si integri il più possibile con tutte le realtà pisane.
Non essendo toscano, la mia paura è non avere molto il senso del feudalesimo tra una zona e l’altra, delle micro-corti che si chiudono in una sorta di muraglia e non comunicano l’una con l’altra: da buon napoletano, abituato a muovermi sempre in spazi diversi e da ogni spazio prendere quello che può essere utile alla causa, vorrei che ci fosse la totale integrazione con tutte le forze cittadine, culturali e sociali: a Pisa c’è una realtà studentesca imprescindibile che va dall’Università, al Sant’Anna, alla Normale, all’Internet Festival, senza dimenticare i cittadini naturalmente. Il teatro non può essere considerato una sorta di castello turrito dove solamente una certa società può andare. Come ho detto anche in conferenza stampa, ha un suo ruolo sociale e civico che non può prescindere dalla realtà, soprattutto in un momento così difficile per la cultura, dove noi dobbiamo fare la nostra parte».
È innegabile che le sue regie siano animate da grande raffinatezza, innovazione e – talvolta – da un pizzico di provocazione; è quindi lecito supporre che le prossime stagioni liriche saranno impostate in questo senso. Non teme che il pubblico locale possa preferire la tradizione all’innovazione?
«Certo, questa è una paura che ho, e anche bella grande. Però il teatro deve divertire, deve far pensare e deve insegnare. La funzione di un teatro non è solo venire incontro a cose prestabilite: se con la proposta di titoli o di allestimenti si sollecitano riflessione e curiosità, è un passo nella giusta direzione. Mi piace proporre titoli tradizionali accanto a titoli meno prevedibili, cercando di inserire anche l’opera contemporanea perché esiste un teatro contemporaneo con delle tematiche vicine alle nostre sensibilità di esseri umani viventi in questo momento storico cui, sicuramente, il mondo dell’opera può fare un bellissimo servizio: sto pensando a titoli fortemente implicati con la critica sociale o con il tema dell’intolleranza. Questo fa parte della nostra situazione storica attuale, in cui stiamo vivendo un periodo difficilissimo e quindi credo che il valore politico (in senso buono) di una programmazione non debba prescindere dall’accorpamento con titoli molto amati e immortali. Però sappiamo benissimo che Rossini non è solo l’autore del Barbiere di Siviglia, così come Donizetti non è solo l’autore dell’Elisir d’Amore, quindi si può proporre il grande nome con titoli meno frequentati ma altrettanto strepitosi musicalmente. C’è anche la fortissima componente verista, ma Verismo non vuol dire solo Cavalleria Rusticana e Pagliacci. Insomma, può esserci l’autore famoso ma il titolo meno prevedibile, oppure può esserci l’opera famosa ma allora va data ai giovani: se l’opera è famosa, vince il titolo, se l’opera è meno conosciuta allora può essere aiutata da un cast più famoso; bisogna cercare di lavorare su queste alchimie perché non voglio essere tacciato né di essere populista né troppo snob e non è detto che ci riesca perché devo ancora imparare a gestire la situazione. Vedremo cosa dirà poi il pubblico!».
Si può dire che in questo può essere un aiuto coinvolgere l’LTL Opera Studio?
«Opera Studio è fondamentale, innanzitutto per me perché ci sono cresciuto: uno degli spettacoli a cui sono più legato è proprio quell’Aci e Galatea di Händel nella trascrizione di Mozart. Questa è una cosa interessante perché la partitura di Händel era stata “inquinata” positivamente dai colori mozartiani: al posto dei violini magari entravano dei clarinetti, con dei colori preromantici strepitosi in una partitura che nasce barocca.
Opera Studio è una palestra eccezionale per i giovani e un lavoro molto importante dal punto di vista della didattica perché permette a un parco molto green, molto verde, di fare l’esperienza che gli manca e di misurarsi con docenti di livello molto alto. Quindi Opera Studio è fondamentale anche da un punto di vista educazionale ed è un tasto su cui batterò fortissimo anche perché, se possibile, vorrei inserire – come hanno fatto anche i miei predecessori – nella nostra stagione lirica del Teatro Verdi elementi validi ex Opera Studio il più possibile, perché Opera Studio non deve diventare semplicemente un episodio meraviglioso e poi un parcheggio di disoccupati, perché il rischio è anche questo: se questi ragazzi sono bravi e hanno talento devono continuare a lavorare, non può essere solo il magico momento e poi tutti destinati al mare magnum dell’anonimato; quindi si parla anche di proteggerli, stare molto attenti all’aspetto educazionale della faccenda, che poi si spalma in un rapporto molto più ampio con le altre realtà istituzionali ed educative della città perché bisogna riuscire a raggiungere le scuole.
Anche io, fisicamente, devo entrare nelle scuole, andare dai ragazzini, dai bambini, devo entrare nelle università, parlare ai ragazzi come Stefano Vizioli, sì “direttore artistico” ma soprattutto come uomo di teatro. Se non mi rendo conto io personalmente di quali sono le loro esigenze, non riesco a capire quali possano essere gli strumenti per renderli sempre più partecipi alla vita di una casa che gli appartiene, perché il teatro appartiene a loro, non a me».
A proposito di innovazione e sperimentazione, è d’obbligo parlare di Opera ESTrema, il progetto creato da lei assieme al M° Aaron Carpené.
«L’altra faccia dell’amore! Da un po’ di tempo mi sono dedicato, anche per una ricerca mia personale (oppure chiamiamola crisi personale, artistica, creativa), a lavorare su linguaggi diversi, che può forse essere considerato una forma di diplomazia culturale: lavorando con paesi diversi, con linguaggi diversi, con strutture diverse e con culture diverse – attraverso alcuni episodi importanti che sono stati Opera Bhutan e adesso Japan Orfeo, in futuro probabilmente ci sarà questo Flauto Magico con artisti cambogiani – di condividere linguaggi diversi anche osando di lavorare sullo spartito. Ad esempio, in Japan Orfeo i ritornelli che vengono cantati dal personaggio chiamato La Musica, che sono cinque e sempre uguali, alcuni di questi non erano di Monteverdi ma di musica gagaku, che è un’antichissima musica strumentale di corte, e si inscrivevano perfettamente nel linguaggio monteverdiano. Nella Zauberflöte vogliamo fare una cosa simile con il glockenspiel di Papageno: non sarà lo strumento che siamo abituati a vedere in orchestra, ma useremo elementi di orchestra khmer per evocare la “sonorità magica” dello strumento di Papageno. Sono esperimenti, laboratori, un po’ quello che Eugenio Barba aveva fatto con l’Odin Teatret con la prosa e che io faccio con la lirica e lo faccio in Giappone, in Cambogia, in Bhutan. Se per caso qualcuno in Italia fosse interessato non sarebbe male!».
Vedremo mai al Teatro Verdi qualche produzione dell’Opera ESTrema? E, soprattutto, vedremo sue regie?
«Dato che la mia esperienza fondamentale è quella di regista ogni tanto verrà proposto qualcosa di mio, ma non voglio assolutamente che diventi un regno delle mie regie, dato che c’è una proposta ampia di registi. Di registi registi, però! Non persone che si prestano alla regìa venendo da campi completamente diversi come ogni tanto succede in Italia. Il palcoscenico è come uno strumento e lo devi saper suonare. È come se uno dicesse: “Mi piace tanto Liszt”. Se hai dieci dita per suonare, lo puoi fare, se non ce le hai non lo suoni. Ti può continuare a piacere, ma non puoi dire di “fare” Liszt; allo stesso modo a me può piacere fare il regista, ma se non ho la competenza tecnica non lo faccio. Ognuno faccia il suo mestiere».
Questo 2017 sarà particolarmente importante per il Teatro Verdi perché ricorrerà il suo 150° anniversario.
«Siamo molto contenti di questa cosa. Sarà un grande avvenimento legato alla città, al teatro e all’opera che aveva inaugurato il teatro, cioè il Guglielmo Tell di Rossini: per il centocinquantenario faremo un grande concerto lirico che avrà due facce, la prima dedicata a Verdi, visto che a lui è intitolato il teatro, e la seconda sarà interamente dedicata a brani dal Guglielmo Tell. Vedremo cosa succederà, ma è un concerto che mi piace e mi piace farlo, fondamentalmente perché è un compleanno che tutta la città deve celebrare; se trovassimo i fondi ci piacerebbe allestire un maxischermo in Piazza dei Cavalieri in modo da avere una diretta per chi non può prendere posto in teatro perché appunto il Teatro Verdi appartiene alla città. Non sia mai considerato un feudo, né una roccaforte, né un castello. Per favore, pisani e non pisani, sappiate che questa casa è aperta a tutti».
Luca Fialdini
lfmusica@yahoo.com
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