«In Italia, pur non essendoci uno stato di guerra armata, c’è un altissimo tasso di mortalità tra i giornalisti». Così Roberto Paolo, vicedirettore del quotidiano napoletano Roma, che durante l’edizione 2015 del Pisa Book Festival ha presentato il suo libro-inchiesta Il caso non è chiuso. La verità sull’omicidio Siani (Castelvecchi, 2014).
In effetti, da Mauro De Mauro a Peppino Impastato, da Walter Tobagi a Giancarlo Siani, si conta una lista di 28 nomi, un dato che contribuisce a dare una grandissima dignità a questa professione. Tuttavia, continua Paolo, «oggi non si uccide (almeno non in Italia, ndr), ma ci sono ben altre forme di “persecuzione”, prima di tutte la querela, oltre alla minaccia (vedi Roberto Saviano, costretto a vivere sotto scorta dalla pubblicazione di Gomorra)». E non è tanto la camorra o la mafia: «raramente sparano ai giornalisti; e nello stesso caso Siani, giornalista abusivo di provincia, non compresero appieno il legame che c’era tra lui e la carta stampata: loro uccidono solo per la paura di cosa potrai fare, o se vai a ledere i loro interessi economici».
Lo stesso Mattino di Napoli non si rese conto della portata della cosa, tant’è che il giorno dopo l’assassinio, la prima pagina titolava “Si scava ancora sotto le macerie”, con riferimento al terremoto che colpì il Messico; mentre, nonostante i redattori si fossero opposti a questa scelta, soltanto di spalla un trafiletto annunciava “Cronista del ‘Mattino’ ucciso in un agguato”.
Ma oggi, come si diceva, è la querela la forma per contrastare il giornalista: non la mafia, ma i poteri forti. È un dato, infatti, che le querele ai giornalisti giungono da politici e magistrati, che si attaccano a qualsiasi cavillo interpretativo. «Poi il giornalista lotta anni per difendersi ed essere assolto, mentre chi ha sporto querela sta tranquillo, manco deve pagare le spese processuali». Questa l’amara riflessione di Roberto Paolo. Inoltre, sottolinea Paolo, «la responsabilità civile per gli articoli è estesa anche a direttore ed editore, in virtù del principio della “responsabilità oggettiva”, lo stesso che si applica anche ai proprietari di cani o al genitore di un minore o al tutore di un incapace, per fare un esempio». L’inevitabile risultato è che «il giornalista vorrebbe pure scrivere con coraggio, ma non glielo permettono perché l’editore e il direttore hanno paura, e quindi tengono al guinzaglio i loro cagnolini».
E Siani, invece, aveva capito la forza delle sue denunce?
«Per quanto riguarda Giancarlo Siani, in realtà neppure lui si rese conto della portata delle sue inchieste sulla camorra. Nell’estate del 1985 era arrivato dalla sede di Torre Annunziata alla sede centrale del Mattino, per sostituire dei colleghi andati in vacanza. Era il primo passo per diventare giornalista, sì ancora abusivo, ma ora nella sede centrale… Siani è stato l’unico giornalista ucciso dalla camorra in Campania».
Qual è la tesi principale del suo libro, e da cosa è partito?
«Tutto nasce per caso. Un ex prete, che si dedicava alla riabilitazione dei detenuti, mi ha chiesto una mano per pubblicare sul mio giornale la recensione di un libro di memorie carcerarie, scritto da Giacomo Cavalcanti, un ex boss di camorra che dopo aver scontato la pena è uscito di galera, è andato a vivere al nord, e ha ripreso a fare l’artista. Nel libro, tra le altre vicende, parla anche dell’omicidio Siani, affermando che in carcere non sono finiti i veri colpevoli per l’assassinio del giornalista: nella fattispecie, non sarebbe stato il clan Nuvoletta di Marano bensì il clan Giuliano di Forcella. Da qui è nato il mio libro».
Perché lo ha scritto? Chi o cosa lo ha spinto a farlo?
«Mi sono accorto che non ne sapevo molto delle indagini e dei processi sull’omicidio Siani, se non da qualche libro e da qualche film, come Fortapàsc. Mi occupo di cronaca giudiziaria, quindi sono andato a cercare e a studiare gli atti giudiziari. Ho scoperto che, se non altro, non c’è nessuna prova che gli autori materiali dell’omicidio siano quelli in carcere (per i mandanti, invece, quello è un altro discorso). Quindi la prima parte del lavoro è stata prettamente documentaristica. Poi ho cercato i testimoni oculari. La seconda fase è stata sul campo, più di giornalismo investigativo, per dare nome e cognome alle persone a cui accennava, senza farne i nomi, Cavalcanti nel suo libro. Così sono arrivato a incontrare una persona che mi ha confessato di aver dato materialmente le armi a chi ha ucciso Siani».
E il suo rapporto con Trame, festival dedicato ai libri sulle mafie per sconfiggere le mafie?
«Con Trame Festival il rapporto è nato perché nel 2015 ricorreva il 30esimo anniversario della morte (23 settembre 1985). La macchina di Siani, la famosissima Mehari verde, ha fatto il giro dell’Italia e dell’Europa, e a giugno dello scorso anno era proprio al Trame di Lamezia Terme. Inoltre, nell’ambito di TrameOff è stato organizzato un ciclo di eventi dedicati ai “Giovani favolosi”. Non poteva non esserci anche Siani. Mi hanno quindi invitato a parlare del mio libro. Inoltre, non volevo lasciare in un cassetto tutti quegli atti giudiziari sull’omicidio Siani, trovati nel corso di alcuni anni perché nessuno li ha conservati e resi pubblici. Io volevo che quel lavoro documentaristico, una sorta di archivio della memoria, diventasse fruibile a tutti. Gaetano Savatteri, direttore artistico del Trame Festival, mi ha proposto di donarli a loro. Ho subito accettato, fornendo tutti i documenti, che sono stati scansionati per essere accessibili anche sul sito di Trame».
Giancarlo Siani non era un giornalista professionista. Era un collaboratore, e aveva scelto Torre Annunziata solo perché era l’unico spazio. Era arrivato alla redazione del Mattino solo poco prima di essere ucciso. Aveva appena compiuto 26 anni…
Francesco Feola