Tempi moderni (Modern Times, Charlie Chaplin, 1936)
Sono infinite le chiavi di lettura che sono state date, in quasi 80 anni, a Tempi Moderni. Le molteplici analisi sociali e politiche vanno accostate obbligatoriamente ad un’analisi inerente al linguaggio cinematografico.
Se è vero che Tempi Moderni è una pantomima che mette a confronto l’uomo e la macchina, il capitale e il lavoro, la condizione dell’uomo e l’aberrazione dell’industrializzazione selvaggia, se è vero che Chaplin fa di Charlot un operaio-vagabondo-scioperante per caso, che poco ha da condividere con la lotta di classe, è vero anche che ogni inquadratura, ogni gesto compiuto da Charlot, ogni scelta visiva è più simbolica che realistica.
L’ingranaggio è l’oggetto industriale in cui Charlot viene risucchiato, in cui fa rimanere intrappolato un meccanico, ma è anche l’ingranaggio sociale che comprende il sanatorio, il carcere, il reintegro in fabbrica, il tentativo di avere una casa, il tentativo di avere un lavoro e la fuga finale. Lo storico del cinema Cremonini in poche righe spiega benissimo il vero messaggio di Charlot in questo film: “egli vuole lavorare, vuole inserirsi nel sistema, accetta i furti della ragazza, perché bisogna pur mangiare, ma la strada che preferisce è quella dell’onestà e del lavoro, la strada che conduce alla realizzazione del suo sogno piccolo-borghese…Il ritratto che Chaplin ci dà del proletariato nel 1936 rifiuta la facile (e falsa, negli USA) illusione della lotta di classe. È un proletario cui manca la coscienza di essere proletario, l’ideologia borghese lo ha già invaso, in modo definitivo”. Questa sua lacuna proletaria può essere anche letta come un’incapacità insita nel personaggio: Chaplin ha una sua posizione chiara ma è Charlot che è incapace di attuarla.
Tempi Moderni esce in un periodo in cui il cinema sonoro (e parlato) aveva già preso il sopravvento e Chaplin si sentiva stretto all’angolo. Se già in Luci della città (City Lights, Charlie Chaplin, 1931) l’uso della voce viene utilizzata in chiave satirica e dissacrante (le personalità di spicco della città che all’inizio della pellicola inaugurano il monumento emettono gorgheggi incomprensibili e cacofonici), in Tempi Moderni si compie il vero corto circuito mediatico: attraverso scelte cinematografiche pseudo-fantascientifiche Chaplin dona la parola all’uomo solo attraverso la macchina. Il padrone dell’industria parla ma solo quando è inquadrato nel grande schermo, gli inventori della macchina per mangiare (marchingegno metafisico più vicino ad una macchina da tortura) spiegano il funzionamento di tale oggetto al massimo dirigente attraverso una registrazione su disco e Charlotte, alla fine, può cantare la sua Titina perché ormai non è più un uomo, bensì una marionetta, un ex-uomo trasformato in burattino.
In termini di riprese e di costruzione dell’immagine, Tempi Moderni è un passo avanti rispetto a Luci della città. La maggioranza delle scene del film del 1931 sono girate senza rilevanti movimenti della mdp, le sequenze erano costruite facendo leva sulla staticità della scena per creare così un contrasto coi mille movimenti del comico. Invece in Tempi Moderni, come sottolinea ancora Cremonini, “Chaplin dimostra che il comico (e quindi il cinema, di cui il comico è la forma linguistica per lui specifica) sta soprattutto nell’immagine. E si deve notare come nel suo stile si sia nel frattempo affinato l’uso della macchina da presa e dei suoi movimenti”. Solo con l’immagine Chaplin è riuscito a costruire il suo universo (più elegante in Luci della città, più deteriorato in Tempi moderni) e solo con la scelta di scene più dinamiche e di movimenti di macchina più rapidi riesce ad essere più comico, mettere l’accento su contrapposizioni insite nel suo personaggio ed anche elevare il suo linguaggio cinematografico.
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