Fino al 20 settembre la mostra Thaumàzein a Massa
È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo.
– Platone, Teeteto 150 d –
Massa, Castello di Malaspina ed è subito meraviglia.
A qualche metro sul livello del mare, il panorama è quello della bassa Lunigiana che incontra il versante lucchese. È in questo contesto che, fino al 20 settembre 2015, sarà possibile lasciarsi travolgere dal progetto Thaumàzein: le personalità artistiche di Giulio Saverio Rossi e Jacopo Pagin si incontrano in una mostra curata da Alessandra Franetovich.
Pittura e installazione, allegoria e disillusione, miti vecchi e realtà nuove abitano alcune delle stanze del castello-fortezza, esprimendosi in un percorso espositivo dove 15 opere dialogano con le architetture circostanti e, nondimeno, tra loro.
Al visitatore spetta il beneficio del dubbio: nessuna verità svelata, dunque.
La consistenza delle suggestioni formato opera sembra fatta della stessa materia degli affreschi quattrocenteschi ormai sgretolati che ricoprono muri e mattoni, ma l’impatto visivo è forte e giocato molto sapientemente sul piano dei colori e dei materiali, oltre che su quello ideologico.
Il linguaggio immaginifico ed essenziale di Giulio Saverio Rossi scruta da lontano quello eccentrico e surreale di Jacopo Pagin. L’incontro tra i due universi sembra fantascienza eppure è reale e utile a definire gli estremi dell’argomento di ricerca della mostra: quello stupor mundi fatto di trauma e meraviglia che porta alla conoscenza del fantastico o, molto semplicemente, Delle cose del mondo e del mondo delle cose.
Lo suggerisce il titolo di una serie pittorica di Giulio Saverio Rossi dedicata alla rappresentazione di elementi quotidiani e di uso comune, come spine elettriche o lampade da tavolo, immersi nell’apparente quiete delle ampie campiture grigio e tortora. Il movimento è tutto mentale, costretto da un inevitabile focus on che ci porta a riconsiderare gli spazi della nostra esistenza.
Come dichiara la curatrice della mostra, Alessandra Franetovich:
Entrambi gli artisti si fanno portatori in ugual misura di trauma e meraviglia. Nel corso della mostra nasce il confronto tra due ricerche che riscrivono, a modo loro, un nuovo rapporto con il mondo, inteso sempre come stratificazione di epoche e saperi, inscrivendolo entro un’ ambientazione d’interni interrotta dalle immagini degli esterni del castello[…].
Nella dualità del confronto Pagin si fa chiave di lettura di Rossi e viceversa, in una danza dove le premesse possono seguire oppure precedere gli esiti. Non c’è più un solo tempo e tutto non può essere ricondotto ad un’unica dimensione spaziale.
Il Castello di Malaspina, un tempo fortezza e simbolo di potere della sua famiglia, oggi luogo di introspezione e aggregazione sociale, apre le sue stanze ad un nuovo contatto con l’esterno. Le tele di Giulio Saverio Rossi diventano finestre, nei suoi Landscape, opere di pittura a tinte scure e profonde, l’artista riflette sull’uso del colore e sul rapporto tra ciò che è dentro e tutto quello che rimane fuori. Ne risulta l’immagine di un’ entropia universale e congenita dov’è possibile riconoscersi soltanto alla luce del tramonto o nel buio della notte.
Nella mia ricerca artistica non uso esclusivamente la pittura, in quanto il filo rosso è dato dal primato della narrazione che considero essere il vero oggetto della mia poetica. La mostra THAUMÀZEIN ne è un chiaro esempio: i due Landscape sono posti a grande distanza fra di loro per creare un percorso narrativo entro la stanza, e che trova una chiusura ideale nel castello di sabbia. Così abbiamo un primo Landscape appena entriamo nel chiuso dello spazio espositivo, ed un secondo che richiama le decorazioni vegetali degli affreschi.
I colori sono molto importanti in tutte le mie opere pittoriche, ma nei Landscape assumono una dimensione concettuale: per prima cosa chiedono all’occhio dell’osservatore di accordarsi ai loro toni molto scuri, non si offrono ad una prima occhiata (in cui si coglierebbe quasi un monocromo indifferenziato) ma cercano di emergere a poco a poco. Lo stesso procedimento con cui li ho dipinti rivela un certo concettualismo pittorico.
L’immagine mostra delle macchie verdi, che viste con una certa attenzione si focalizzano come alberi, ma l’aspetto interessante è che non ho usato nessun pigmento verde sulla tela, bensì ho steso del giallo molto trasparente su del marrone di base, questo, steso per velature, porta al verde. Il fatto stesso di lavorare con un unico colore su di una base consente di dipingere delle sfumature lievissime e quasi nulle ad un primo sguardo. M’interessava anche ironizzare sull’uso del monocromo che costituisce sempre una grande tentazione in pittura cui molti artisti cedono.
Potrei dire che queste tele rappresentano il gradino esattamente prima o quello esattamente dopo rispetto al monocromo, il momento in cui la figurazione si perde del tutto, o il momento in cui qualcosa rinizia ad emergere.
Anche Kapoor ha sicuramente riflettuto molto sul monocromo, e, se pensiamo alle sue figure geometriche fatte di pigmenti, era già leggibile una certa ironia in cui il monocromo si fa materia. Ma la figura geometrica si fa instabile e momentanea, ed è sicuramente un artista che ha sviluppato anche una poetica sui materiali cangianti o specchianti.
In questo senso posso sentire l’affinità in quanto lo considero uno dei più grandi artisti ad aver lavorato attorno al processo di percezione dell’opera. Ma oltre a lui sono molti gli artisti cui guardo, fra questi Simon Sterling, o nel versante pittorico Domenico Gnoli, come anche Morandi.
– G.S. Rossi –
Jacopo Pagin intinge il suo pennello nei toni sacri dell’ iconologia cristiana e lo sporca con il moralismo della mitologia classica.
La sua arte naviga nelle stesse acque che fanno da cornice a molte delle opere esposte: l’acqua è elemento unificante ma anche pretesto per una lontananza necessaria, definisce la forma del suo contenitore e può capitare di incontrarla nella sagoma in di una palma arresa al lento e inesorabile trascorrere del tempo.
I colori sono sempre intensi, superpiatti, di un vigore dirompente. L’eco del surrealismo iberico non può passare inosservata.
L’acqua è simbolo primordiale, ha un valore speciale per ogni essere vivente. Per quanto mi riguarda è l’elemento che preferisco, può legare tutto ed è idealisticamente blu: il colore cardine del mio lavoro.
– J. Pagin –
In Europa si è persa in mare, Pagin dà forma ad un Giove inquietante che avanza con andatura taurina, noncurante di un’Europa ormai rapita e separandosi dalla sua ombra: un ospite inquietante che cade ai suoi piedi come materia autonoma. Ci si chiede se siano possibili interpretazioni in chiave socio-politica con riferimento alle ultime vicende di attualità:
[…] il titolo ha un riferimento puramente mitologico. Tra l’altro, quando mi sono immaginato il toro antropomorfo nell’acqua, non avevo minimamente pensato al mito di Europa, il titolo è uscito dopo, una volta finito, quando dovevo trovarne uno. Ed è curioso aver scoperto che Europa, in greco antico Ευρώπη, derivi da eu-rope cioè “ben irrigata”: questo mi ha ulteriormente rallegrato. La scelta non ha avuto alcun intento politico, sociale o culturale. Ad ogni modo ero certo che la gente avrebbe pensato alle ultime vicende di cronaca, e anche questo ci sta.
– J. Pagin-
La personalità di Jacopo Pagin emerge dal tentativo di giustapporre le icone cristiane ai contesti della mitologia classica, attivando un corto circuito di significati e significanti, dove verità ancestrali sono ridefinite e mostrate ad un pubblico nuovo, che non ha paura del risultato.
Non so se i miti classici incontrano l’attenzione del pubblico [di oggi], anche se vedo che gli adattamenti hollywoodiani sono sempre in voga. Il mito ed il sacro sono importanti, sono le fondamenta della nostra cultura e finché durerà saranno sempre attuali. I miti sono simbolici per questo non hanno mai un significato univoco e questo permette loro di adattarsi a tutte le epoche.
Le mie non sono opere di fede, non riporto leggende mitiche, riporto mie visioni personali e particolari. Poi, che la mia immaginazione si proietti in uno stile classicheggiante, questo è un altro discorso: deriva dal bagaglio, dal fardello legato alla nostra storia millenaria che sento gravarmi addosso.
Sono i titoli che creano il cortocircuito, perché sembrano accondiscendere un immaginario classico, ma in realtà rimandano a qualcosa di inedito. Il loro “valore moralizzante” viene completamente annientato quindi assolutamente trasformato.
Ho avuto un’educazione cattolica e sono nato il giorno di Natale se può interessare, ma non ho idea di come questi eventi abbiano influenzato il mio lavoro. La religione cattolica è una religione, è come il mito, è fantasia, una fantasia che cela dei significati. E’ la stessa cosa di cui abbiamo parlato fino ad adesso.– J. Pagin –
Nelle opere Navitatis Christi e La vera bevanda del tritone, mito e religione si confrontano arrivando alla loro sintesi: un trionfo fantastico dove fede e credenza cedono il passo ad un disincanto stridulo e d’impatto.
Navitatis Christi porta in scena il bue, elemento iconografico radicato nella storia della pittura moderna – da Rembrandt a Tiziano – e ne affida la rappresentazione ad una sagoma dell’animale squartata, dove brandelli grigi di stoffa leggera accompagnano la forza di una pittura che vuole parlarci di sacrificio ed umanità senza tralasciare ironia e sarcasmo.
Dagli elementi occidentali a quelli orientali: è in Tiger,Tiger che Pagin pizzica le corde liriche della sua pittura mutuando un elemento iconografico della mitologia cinese (la tigre che mangia il serpente) e omaggiandolo della grande poesia di William Blake, che nel 1794 [la] scriveva (e incideva) per fissare nel tempo la sua ansia di conoscenza dell’ordine che soggiace all’esistenza del mondo. [A. Franetovich]
TIGER, tiger, burning bright Tigre! Tigre! Ardente e Luminosa
In the forests of the night, Nella foresta della notte,
What immortal hand or eye Quale immortale mano o occhio
Could frame thy fearful symmetry? Potè dare forma alla tua terribile simmetria?
– W. Blake –
L’arte di Jacopo Pagin è un’arte che ci accompagna per mano attraverso un percorso di profonda autocritica e ci sollecita a chiederci in cosa crediamo. La risposta non sarà certamente immediata, presuppone piuttosto un lungo periodo di riflessione. Nelle opere di Pagin è il silenzio che fa da contrafforte ad un primo impatto visivo così fortemente suggestivo, fatto di collage e decollage, di tinte iridescenti e immagini forti.
Dal silenzio, la riflessione, dalla riflessione la credenza:
Io credo a qualsiasi cosa. Invece, se la domanda è spirituale, vorrei citare Jung: “Tutto ciò, che ho appreso nella vita, mi ha portato passo dopo passo alla convinzione incrollabile dell’esistenza di Dio. Io credo soltanto in ciò che so per esperienza. Questo mette fuori campo la fede. Dunque io non credo all’esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste.”
– J. Pagin –
Il progetto Thaumàzein chiude il suo cerchio con un’invito metafisico: è necessario andare ben al di là dell’ immagine che Giulio Saverio Rossi ci offre col suo Le vacanze dell’ Agrimensore K, per poterne gustare il senso.
Una riproduzione miniaturata del Castello di Malaspina, realizzata in sabbia: proprio come fanno i bambini.
Il carattere giocoso dell’infanzia cerca di entrare tra le pagine de Il castello di Kafka, come il protagonista del testo, che tenta più volte di ridefinire il suo ambito spaziale, volendo entrare proprio all’interno di un castello.
Se in Kafka il castello è simbolo del potere, luogo dove non è possibile accedere con semplicità, allo stesso modo in cui non lo è comprendere il significato della legge, nell’opera di Rossi la costruzione fortificata viene svestita delle sue implicazioni socio-politiche e si prepara ad accogliere il visitatore dentro una dimensione più amichevole, che parla il linguaggio dei bambini, evidenziando un legame tra l’opera, il luogo in cui la troviamo e aiutandoci a ripercorrere il paesaggio dalla costa alle alture della città di Massa e che lo invita a ricollocare la visione del mondo entro nuove coordinate, come spiega Alessandra Franetovich.
Meravigliarsi di ogni cosa è il primo passo della ragione verso la scoperta.
– Louis Pasteur –
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