A due anni dall’uscita di Boyhood (2014), Richard Linklater torna nelle sale con Tutti vogliono qualcosa (Everybody Wants Some!!). La pellicola segue le vicende di un gruppo di studenti in un college americano. È il 1980, in Texas, e Jake è l’ultimo arrivato in una casa con altri dieci studenti; scoprirà presto che al college si può fare tutto fuorché studiare. Al contrario di quanto raccomandato dal loro allenatore di baseball, il gruppo di giocatori/coinquilini vive l’arco di ogni giornata tra feste e serate in discoteca a base di sesso, droga e rock’n’roll. Fra i compagni del branco e un tempo scandito dalle lezioni che puntualmente salta, Jake conoscerà una studentessa di teatro di cui s’innamorerà.
Il film è stato presentato in ambito festivaliero al South by Southwest, confermando la predilezione per l’ambiente indie da parte di Linklater. Una caratteristica del regista statunitense è quella di riuscire a fare delle istantanee generazionali. La trilogia composta da Before Sunrise, Before sunset, Before midnight è l’esempio della sua predilezione nei confronti della contingenza.
Ancora più ambizioso fu Boyhood, racconto della crescita di un ragazzino dall’infanzia all’età adulta, girato nell’arco di dodici anni proprio per filmare il cambiamento fisico dell’attore protagonista. Le radici dell’ultimo film della sua carriera vanno cercate in una sua opera del 1993; sempre in Texas aveva ambientato La vita è un sogno in cui raccontava la vita di un gruppo di liceali in una notte di maggio del 1976. Tutti vogliono qualcosa può essere considerato il successore diretto di La vita è un sogno, questa volta in un anno spartiacque fra i ’70 e gli ’80.
Il film non segue una vera e propria trama ma un susseguirsi di situazioni cicliche nell’arco delle ventiquattrore: la festa, la discoteca, la sbornia e la mattina larvatica del post ubriacatura. L’intenzione di Linklater è quella d’immortalare gli echi degli hippie e l’avvento della disco anni ’80, gli albori dei baffi alla Tom Selleck e gli ultimi stivali di Nancy Sinatra, lo stile surfer che fa spazio ai pantaloni a zampa di paillettes e il sesso non protetto negli anni in cui non si conosceva ancora lo spauracchio dell’Aids. Il regista ferma in qualche modo il tempo, come se non volesse far crescere ed evolvere i suoi personaggi bloccati in un’epoca. La spensieratezza di un periodo in cui il futuro non poteva che essere roseo diventa il fil-rouge che guida i protagonisti da una scena all’altra, senza rinunciare a un velo di malinconia dovuto alla consapevolezza che il periodo d’oro del college dovrà prima o poi finire.
La narrazione è volutamente slegata, proprio per garantire una serie di tableu vivant e apparizioni di figure quasi iconiche. Ogni immagine è volutamente pop, carica di colori saturi e dettagli studiati ad hoc, lo stesso vale per la colonna sonora che spazia dai Queen, i Pink Floyd fino ai Blondie; tutto per connotare il periodo storico. Il passaggio da una sequenza all’altra è spesso scandito da una dissolvenza proprio per aumentare l’effetto episodico.
Per lo spettatore abituato a un tipo di racconto ben strutturato può apparire un film fin troppo leggero e poco coinvolgente ma l’approccio più indicato per la visione di quest’opera è quello contemplativo, come se ci trovassimo davanti a un prodotto dell’arte plastica. Trascurando la trama, il linguaggio del cinema commerciale o quello delle politiche autoriali, Linklater ambisce alla creazione di quadri evocativi che coinvolgono lo spettatore in una sorta di parco tematico della visione perfettamente connotato.
Antonio M. Zenzaro
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