Le connessioni mortali: Unfriended & Friend Request
È sempre difficile approcciare un articolo di questo taglio dopo che negli ultimi due giorni ti sei trovato di fronte a tragedie reali – il suicidio della ragazza napoletana e lo stupro ripreso e poi divulgato su WhatsApp della minorenne di Rimini – che hanno superato nettamente la fantasia della settima arte e tutti i suoi artifici scenici.
Che il cinema abbia sempre viaggiato in un binario parallelo alla società delle bassezze, dei vizi, dei consumi, delle perversioni e delle vanità è un dato di fatto. Nonostante ciò, la storia del cinema è stata anche un veicolo per analizzare l’impatto sociale dei mass media e delle nuove tecnologie.
Tra 2014 e 2016 sono usciti due film rientranti nel macrogenere dell’horror che hanno realizzato la medesima operazione traslandola sul piano dei social network: questi due lavori sono Unfriended del 2014 e Friend Request del 2016. In sintesi, entrambe le pellicole trattano gli scottanti temi del cyber-bullismo, violazione della privacy, suicidio, vendetta, condizione della realtà giovanile, solitudine, assenza di protagonisti adulti e genitoriali, il tutto virato in chiave horror soprannaturale. Ma andiamo con ordine e proviamo a capire dove questi film funzionano e dove non riescono a svolgere il loro compito.
Unfriended è un film (se così possiamo chiamarlo) che mette in scena, un anno dopo il suicidio di una ragazza chiamata Laura, una video-conversazione su Skype. Quest’esperienza multitasking tra cinque amici divisi tra schermate di Skype, Messenger, Spotify e Instagram si rivelerà fatale visto che un’entità virtuale senza volto (la poveretta suicidata) riuscirà a tirare fuori il loro passato, la loro meschinità, il loro tradimento nei suoi confronti, la facciata dell’amicizia utilizzata per farsi gli affari propri. Naturalmente le conseguenze saranno disastrose per tutti i partecipanti. Quello che colpisce di Unfriended è il modo in cui è stato messo in scena. Il film di Levan Gabriadze scorre nei suoi 80 minuti tra split screen delle conversazioni di Skype e di messaggistica istantanea e ci vuole assegnare il compito di spettatori esterni pronti ad accogliere questo ritorno dall’oltretomba in chiave social. Il vero punto di interesse di questa operazione è rintracciabile nel fatto che il regista ha tarato il prodotto sulle nuove generazioni, che in larga parte hanno visto questo lungometraggio sullo schermo di un pc portatile (e non sul grande schermo del cinema o su un grande schermo casalingo) e ciò crea, forse, l’unico cortocircuito interessante del lavoro di Gabriadze.
Friend Request arriva due anni dopo Unfriended ed è firmato Simon Verhoeven (nessun legame di parentela con il Paul Verhoeven de L’amore e il sangue e Atto di forza). Il regista abbandona il formato “tutto in schermo” e realizza un lavoro ben costruito e architettato, nonostante delle forzature che anche in un horror soprannaturale risultano assolutamente fuori luogo. Avete presente Lisbeth Salander, la protagonista di Uomini che odiano le donne? Ecco, la protagonista Marina è la versione psicopatica e stregonesca della bella cyber-dark dei romanzi di Stieg Larsson. Non avendo alcuna amica, utilizza Facebook per stringere amicizia con una compagna di corso, Laura, sempre attorniata da amici e ovviamente fidanzata. La disperata attuerà il proprio suicidio e lo immortalerà in un video quando capirà di non essere stata invitata alla festa di compleanno di Laura. Da quel momento Marina entrerà nei sogni e nelle vite reali e social di questo gruppo di amici fino allo scontato finale circolare. Se le fondamenta di questo film possono essere accostate al precedente, possiamo comunque scorgere molte differenze: Verhoeven, pur patinando la scena in maniera quasi televisiva, gestisce un film con attori e movimenti di macchina classici, un film montato e recitato e non un’esperienza multitasking che ammicca al mockumentary. La critica ha giustamente accostato Friend Request al filone giapponese degli horror anni 2000 e tutto ciò è riscontrabile in alcune scelte visive prettamente dark, gotiche, rituali, anche se l’uso (e l’abuso) dei cosiddetti jumpscare non produce affatto il climax tipico del mondo orientale.
Premettendo di essere pienamente d’accordo con l’intento di sensibilizzare i giovanissimi da un utilizzo squilibrato dei social network, ribadisco l’idea che un film deve restare un film. Per quanto voglia essere immerso nella contemporaneità e fungere da digital pamphlet , dovrebbe agganciarsi a qualcosa di più credibile. Tento di spiegarla rapidamente tirando in ballo un film cult degli anni Ottanta: A Nightmare on Elm Street, in italiano semplicemente Nightmare. Rimanendo nell’ambito dell’horror, Freddy Krueger era sì un personaggio di fantasia, ma Wes Craven riuscì a intuire che dotando il suo villain del mezzo onirico come arma, lo spettatore avrebbe immediatamente accettato questa forzatura della realtà per il semplice motivo che il sogno stesso è essenza dell’irrazionale e del surreale. Invece, utilizzando un computer, i registi di questi due film fanno ricorso a un oggetto che è totalmente avulso dalla fantasia e dall’irreale. Anzi, per tutti i protagonisti l’oggetto elettronico è qualcosa di inscindibile dalla propria vita e quindi il passaggio tra realtà e fantasia è veramente duro da digerire anche per un appassionato del genere.
Tomas Ticciati
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