La Vista delle Livande
Una follia gastronomica serpeggia in tutto il mondo occidentale: cascate di ricette, blog culinari, trasmissioni su trasmissioni e Master Chef in ogni nazione, con chef quasi sempre arrabbiati e cafoni. E poi cucine da incubo, cucine dei conventi, chef bambini stressatissimi, cucine di finta sopravvivenza, diavoli in cucina, chef in viaggio, ricette unte e bisunte, ricette pericolose e altri deliri gastronomici con vermi, insetti, stecchi, molluschi del pleistocene e parassiti vari (soprattutto intestinali).
In effetti la follia, o meglio una creatività fuori dagli schemi, è utile in cucina per creare nuovi accostamenti e ricette, e darci una visione nuova del mondo. Qualche anno fa neppure sapevamo dell’esistenza di certi sapori e profumi che raffinando il nostro palato hanno modificato anche il nostro modo di sentire e vedere. Molto è cambiato nel nostro cervello da quando apprezzavamo solo i profumi confortanti e tradizionali della pommarola o dell’arrosto a ora, capaci di avvertire i sottili sentori del pepe di Sichuan, di apprezzare il gusto affumicato di una preparazione, di capire il contrasto armonioso di una nota dolce in un piatto salato. Ma alla fine questa sorta di Grande Bouffe (si vede, si parla e si legge solo di cibo!) rischia di portarci alla nausea, a estremizzazioni dietiste, ad anoressie o bulimie devastanti. Per uscire da questo tourbillon rabelaisiano, da questo eterno carnevale senza alcun limite alimentare (e sotto sotto anche morale) non ci resta che digiunare con la pancia, e nutrirci solo con gli occhi leggendo e gustando vecchi menù!
L’uso del menù come lo intendiamo ai nostri giorni ha inizio nel momento in cui il servizio alla francese, in voga fino ai primi dell’800, viene soppiantato dal servizio alla russa. Il servizio alla francese derivava dai grandi banchetti rinascimentali italiani, in cui le portate erano poste scenograficamente tutte assieme sulla tavola, dagli antipasti ai dolci. Si trattava di qualcosa di simile a un Buffet odierno, con la tavola decorata da grandi trionfi di zucchero in forma di edifici, navigli, giardini e altre follie, a seconda dell’occasione conviviale. Tra un trionfo e l’altro il commensale quindi poteva vedere tutto, e decideva di conseguenza cosa mangiare. Chiaramente questo servizio aveva dei grossi difetti: le portate si raffreddavano e le salse si addensavano, c’erano sì degli scaldavivande, ma è facile immaginare che cosa potessero scaldare pochi lumini a cera messi sotto pesanti piatti da portata in argento o peltro. Insomma, tutto era più bello che buono!
Il servizio alla russa prende nome dal diplomatico russo Alexander Bòrisovich Kòurakin, di stanza a Clichy nel 1810-1811, che stufo di arrosti freddi e piatti collosi pensò bene di cambiare registro. Nei suoi pranzi i commensali si sedevano a una tavola guarnita solo di posate, piatti e bicchieri, e naturalmente fiori e centrotavola, e le pietanze venivano via via servite secondo un ordine stabilito, nell’uso che seguiamo ancor oggi. La novità prese piede immediatamente, perché al di là del diverso effetto scenografico, finalmente si mangiavano piatti perfetti dal punto di vista della cottura e del servizio. Diventava però necessario sapere che cosa avesse preparato il cuoco, così da potersi regolare, per evitare di gettarsi su antipasti e minestre, rimpiangendo poi di non poter mangiare tutto il resto.
La lista delle vivande, o menù, grazie anche allo sviluppo dell’arte tipografica e alla relativa facilità di riproduzione meccanica, diventa così in poco tempo un must in ogni pranzo importante. Il menù fustellato, dorato e con nastri e insegne, disegnato da grandi o piccoli artisti, o quello più semplice, scritto a mano su cartoncini prestampati, spesso pubblicità di liquori o vini, fa il suo ingresso nel nostro immaginario e serve a pregustare quello che andremo a mangiare. Ben presto il menù diventa un oggetto da conservare, i vari commensali se lo firmano a vicenda per ricordo, gli artisti vengono chiamati a crearne per le occasioni più importanti, e così negli anni si formano collezioni incredibili di queste piccole carte così evocative.
Ai nostri giorni è un vero piacere leggere queste liste, spesso scritte in un buffo francese adattato, trovare strani accostamenti di vini, sconosciuti e probabilmente imbevibili per il nostro gusto, ed è divertente cercare di rifare le ricette che più ci colpiscono come il Consommé Celestine, la Supreme de Turbotin à la Reine Wilhelmina o la Pollardina ripiena all’Italiana.
I menù ottocenteschi hanno in genere una grafica classica e rigorosa, soprattutto quelli più ufficiali. Il testo predomina, spesso in bianco e nero, e vi figurano stemmi nobiliari e riferimenti ai costumi del passato. Ma poi ve ne sono altri, per riunioni di curiose Società, o di ritrovi artistici, o di ex commilitoni, che presentano una grafica molto più vivace e con trovate divertenti, come il delizioso menù della Società dei 5 minuti di sollievo (pare fossero quelli trascorsi lontano dalle mogli!) del 1898, dove buffi puttini esplodono da una bottiglia di Champagne. Spesso i disegnatori erano famosi pittori umoristici che si divertivano a creare sui cartoncini situazioni bizzarre e al limite della decenza: donne con pochi veli riverse su grandi piatti da portata, in mezzo a signori perfettamente vestiti, come nel menù della Taverne de Paris, dove il panciuto cameriere osserva con aria un po’ volgare la bella cocotte.
Nel menù romano del 10 giugno 1913, creato forse per l’anniversario dell’inaugurazione della Centrale Elettrica Montemartini, si ritrovano tutti i tratti più tipici dell’arte e della cultura del momento: l’immancabile bella donna discinta, avvolta sinuosamente dai fili elettrici, tiene in mano un cerchio illuminato, a rappresentare il progresso e la fiducia in un futuro sempre più prospero, un’epoca d’oro feconda di nuove invenzioni, mentre invece ci si avvicinava, ignari, alla I Guerra Mondiale!
Negli anni a seguire le invenzioni grafiche e letterarie si fanno più leggere. Si gioca con le parole, si usa un latino maccheronico, come nel divertente menu del 1918 per la riunione dei richiamati dalla patria all’Osteria della Sora Nina.
In altri si trovano delle incredibili italianizzazioni di parole francesi, come il terribile Pastello di Fegato Grasso per Pàtè de foie gras, che incontriamo nel menù del Rotary Club di Venezia del 26 maggio del 1925 (frutto probabilmente delle direttive del regime).
Nel menù per la Maggiolata del 5 maggio 1935 a Roma, fra “leggiadre roselline e ghirlandette” si mangerà una “Tradizione maccaronica alla Romana” e fra “trilli-armonia-letizia” avremo una “Crostacea dolcezza” e “frutta fragrante”.
Nel menù per un raduno a Casatico dell’8 settembre 1935 si stravolgono tutti i nomi delle pietanze con un gioco linguistico infantile ma divertente: si susseguono Antilame di Sapasto, Taccosto Arrino, Vitè Tonnello, Tortiso parada, il tutto chiaramente annaffiato da Vosso Rino e Vianco Bino!
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la grafica diventa ancora più spigliata, come nei menù del francese Hervé Baille, che pubblicizza i vini di Francia: un pasto senza vini di Francia è come un re senza regno, un veliero senza vento, una chitarra senza le corde… e ogni paragone è rappresentato da un piccolo schizzo.
Uno dei più divertenti è quello degli anni ’50 di un hotel del Montana, dove due occhi d’uova e un sorriso di bacon ci augurano Buon Giorno!
Le parole e le immagini di questi vecchi menu ci divertono ancor oggi, stuzzicando la nostra immaginazione, così che ben comprendiamo le parole di Manuel Vàzquez Montalbàn: “Non si sa di nessuno che sia riuscito a sedurre con ciò che aveva offerto da mangiare, ma esiste un lungo elenco di coloro che hanno sedotto spiegando quello che si stava per mangiare.”
Claudia Menichini
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