Noi siamo concentrati nelle città, nelle frustrazioni, persi nella burocrazia e nelle vite complicate, tolleriamo l’inquinamento degli oceani, la povertà e la distruzione delle foreste. Ma non perdo la speranza, perchè la cosa che ci ha reso superiori finora non è la burocrazia ma la spiritualità, c’è qualcosa di più grande dentro di noi.
GENOVA – Sebastião Salgado, fotografo, economista, lavoratore, osservatore… ma, soprattutto, uomo.
Lo stesso Uomo che viene messo in mostra, raccontato visto e amato da questo grande fotografo che ha fatto della poetica del bianco nero la sua passione, il suo lavoro, la sua stessa vita.
Nella sua ultima mostra, “Genesi”, inaugurata a Palazzo Ducale di Genova il 27 febbraio 2016, è raccontato un viaggio alla ricerca della vita, non nel senso banale o metaforico del termine, non uno scrupolo da turista evoluto o eco-motivato, ma in senso terapeutico, alla ricerca del sé.
Nelle oltre 200 fotografie esposte in mostra è ritratta una parte della multiforme popolazione del mondo con i suoi equilibri millenari, resi attraverso la sua estetica del bianco e del nero, che non fa discriminazioni e che riesce a trasmettere le atmosfere, le luci fredde e quelle calde senza mai infastidire l’occhio e senza essere banale o conformista. Opere di luce, in cui la fotografia è veramente strumento della natura, che si fa protagonista attraverso il suo soggetto e la sua bellezza. Organizzata dalla moglie, Leila Wanick Salgado, questo percorso nasce da un’esigenza vitale: dopo il progetto “In cammino”, un viaggio di sette anni che parla della migrazione e delle grandi popolazioni in fuga per la vita, al fotografo viene diagnosticato per il suo continuo malessere un sintomo particolare quanto netto: «Hai troppa morte dentro», gli dice un medico.
Una spinta che lo farà tornare nei suoi luoghi natii, dai suoi genitori, per ricordarsi delle sue origini e ritrovarsi: la sua valle, quella in cui era cresciuto ed aveva conosciuto con suo padre la vita e i lunghi tempi della pastorizia, era distrutta.
Smise allora di fotografare per quattro anni, avviò una raccolta fondi e ripiantò più di due milioni di alberi di duecento tipi diversi, creando uno dei più grandi progetti ambientali della storia del Brasile. Da questa volontà di riconciliarsi con la natura è nato “Genesi”, un progetto iniziato nel 2003, lungo sessantaquattro mesi, di oltre trenta reportage, che vede la tappa iniziale in quella che fu la stessa dell’approdo di Charles Darwin: le Isole Galapagos. Un’opera che non parla del male creato dall’uomo sull’uomo, ma che anzi fa capire quanto ci sia da imparare tramite le meraviglie del mondo, e quanto da preservare. Le varie parti in cui è divisa la mostra creano anch’esse un percorso che affronta il pianeta dividendolo in macrosezioni, partendo dal Sud con L’Argentina, le isole dell’Antartico e l’Antartico stesso. Una sezione intera sull’Africa, culla dell’umanità e molto cara al fotografo, che ci ricorda da dove veniamo; la terza parte è dedicata a una selezione di isole fondamentali per la loro biodiversità, come il Madagascar, la Papua Nuova Guinea, i territori degli Irian Jaya. L’emisfero del nord è la tappa successiva, in cui è compreso anche il Colorado, fino ad arrivare all’ultima sezione, riservata all’Amazzonia, del Venezeula e del Brasile, grande polmone del pianeta.
Del Brasile, sua terra natia, viene presentato anche il Pantanal, ricchissimo di flora e fauna. Sono raccontate vite di umani e di animali, al limite della sopravvivenza, e che devono la vita proprio grazie al loro isolamento. Con i volti sereni, impegnati e mai intimoriti, sono vicini a noi più di quel che si crede: si travestono per spaventare, si truccano per intimidire, si coprono per proteggersi.
Questi modi di vita ancestrali, verso alto per difendersi dagli altri animali, verso il basso per cacciarli, per coltivare, per collegarsi con altre fonti di vita, con la vita stessa. E’ lei l’entità principale che emerge da queste fotografie cariche di nero, di bianco, di grigio e di mille altre sfaccettature, in un perfetto equilibrio tra buio e luce, esistenza e oblio.
«Il 45% del paese – dice Salgado in un’intervista di Mario Calabresi – è ancora com’era nella Genesi: le foreste tropicali, i deserti, l’Antartide, tutto ciò che sta sopra i tremila metri, gran parte della Siberia, dell’Alaska e del Canada. Ma dobbiamo progredire, non solo giocare in difesa: dobbiamo ricostruire le foreste là dove l’agricoltura è stata abbandonata, restituire ossigeno e ricreare diversità». Una sensibilità pratica mostra in quest’opera, per ricordarci che l’uomo non è che un animale tra i tanti presenti sulla terra, e che è necessaria una convivenza in equilibrio con ciò che ci circonda per meritare di essere definiti “Sapiens”.
E’ necessario il risveglio: della coscienza, del rispetto e della curiosità, quella buona, quella pura.
Purezza ricercata da vari artisti nel corso del tempo, primo fra tutti Paul Gauguin, che nel 1897 dipinse “Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?”: non a caso anche quest’opera è il risultato di un percorso di rinascita, di attaccamento alla vita, in seguito al fallito suicidio del pittore. Ripercorrendo i suoi passi a Tahiti, Gauguin produsse di getto questo quadro orizzontale come la visione umana, in cui compaiono le contaminazioni di una vita: dall’idolo religioso alle bellezze indigene, dalla mummia peruviana al mondo arcaico dell’onirico. In maniera quasi profetica, Gauguin si troverà a dire: «Un’epoca terribile si prepara per l’Europa per la generazione che viene… Tutto è marcio, gli uomini e le arti. Laggiù almeno, in un cielo senza inverno, su una terra dalla fecondità meravigliosa, il tahitiano deve solo alzare un braccio per raccogliere il cibo; così non lavora mai… per loro vivere è cantare e amare». Le donne qui ritratte sembrano dialogare con l’infinito mentre guardano e interrogano lo spettatore: sai da dove vieni? Sai dove ritorni? La sensualità dell’incarnato è accentuata da un colore carico, a sottolinearne la differenza con gli occidentali, che si ritrovano però negli stessi atteggiamenti di sensualità, di malinconia, di istinto. Un’opera spesso interpretata come allegoria della vita è il testamento di questo grande pittore, che cercò di trasmettere agli uomini del suo tempo la necessità di ossigeno dal nostro ego, lo stimolo del ricercare le origini umane e dell’esigenza di ritrovare le proprie origini nell’incontaminato, nel puro.
Come Gauguin, Salgado lo dice a noi oggi: “Genesi”, è la risposta.
Io scrivo con la macchina fotografica, è la lingua che ho scelto per esprimermi e la fotografia è tutta la mia vita.
Sede della mostra:
Palazzo Ducale, Sottoporticato
Piazza Matteotti, 9
16123 Genova
Date
dal 27 febbraio al 26 giugno 2016
Orari
lunedì 14 – 19
da martedì a domenica 10 – 19
Chiara Lo Re
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