Viktoria Mullova e Katia Labèque, classico contemporaneo

Viktoria Mullova (violino) e Katia Labèque (pianoforte)

Viktoria Mullova (violino) e Katia Labèque (pianoforte)

PISA – Uno degli appuntamenti più attesi per questo mese era il concerto del duo Mullova-Labèque che ieri 18 ottobre ha ufficialmente dato inizio alla cinquantesima Stagione dei Concerti della Normale. È stato lo stesso direttore artistico del Festival, il M° Jeffrey Swann, ad accogliere il pubblico nella sala grande del Teatro Verdi e a fare gli “onori di casa”, sottolineando ancora una volta l’importanza del traguardo dei cinquant’anni e augurando che questo eccezionale Festival possa giungere almeno al centesimo compleanno. Prima di congedarsi, il M° Swann ha annunciato – con visibile emozione – che questa sarà l’ultima edizione del Festival che lo vedrà nel ruolo di direttore artistico: dopo dodici anni, infatti, passerà il testimone al compositore Carlo Boccadoro.

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Sergej Prokof’ev ritratto da Henri Matisse

Dopo la breve introduzione, ha fatto il suo ingresso sulle tavole del Verdi la violinista Viktoria Mullova e ha eseguito il primo punto del programma che è anche uno dei brani più caratteristici del suo repertorio, la Sonata in re maggiore per violino solo op. 115 di Sergej Prokof’ev. È molto interessante la scelta di questa composizione come brano di apertura del concerto, in quanto è un efficace manifesto programmatico di quanto poi è stato affermato con l’intera esibizione: questo è quello che sappiamo fare. E lo sanno fare benissimo. Per inciso, ci vuole del coraggio anche solo a presentare in concerto una composizione per violino solista perché se le doti dell’esecutore sono meno che eccelse, il rischio di risultare monotoni alle orecchie del pubblico è elevatissimo, ma naturalmente non è questo il caso.
Questa mirabile Sonata, dal gusto marcatamente neoclassico, ha messo in luce alcuni aspetti peculiari dello stile esecutivo della Mullova, primi fra tutti l’invidiabile purezza del suono e la pulizia esecutiva: laddove molti si beano del caos architettonico di Prokof’ev, Viktoria Mullova persegue una nitidezza nell’eseguire anche i passaggi più caratteristicamente «sulfurei». Naturalmente l’eccellente controllo tecnico non ha inficiato l’espressività e il pathos dell’esibizione, che è stata invece caratterizzata da una verve spigliata e quasi aggressiva.

A chiudere la prima parte del concerto, la grandiosa Sonata per violino e pianoforte n.1 in la minore op. 105 di Robert Schumann. Resta senza dubbio una composizione che non tocca le proporzioni della successiva Sonata per violino e pianoforte op. 121, ma in essa è contenuto tutto lo spirito tipico dei lavori di Schumann, fatti – per dirla con le parole di Ennio Melchiorre – di «slanci ardenti e di improvvisi ripiegamenti, di impeti e di tenerezze, di introspezioni psicologiche e di sogni fantastici venati di poesia romantica». Questo è ciò che i due Maestri hanno presentato al pubblico: tensione e fuoco nei grandi picchi emotivi, meditazione e raccoglimento nei momenti più introspettivi, ed è proprio con questi ultimi che hanno dimostrato una volta di più il proprio valore, puntando tutto sulla raffinatezza del tocco, nello studio accurato e profondo dell’agogica, soprattutto nei momenti in cui il canto passava dal violino al pianoforte, in cui l’intreccio delle parti – perfettamente intessute le une nelle altre – ha creato un arazzo sonoro dall’incomparabile bellezza e seduzione.

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Arvo Pärt

La seconda parte dell’esibizione ha visto protagonista la musica del Novecento, con due compositori contemporanei (Töru Takemitsu Arvo Pärt) e Maurice Ravel, proiettando gli spettatori in un universo dalle linee evanescenti che si confondono tra pioggia, vapore e silenti paesaggi. Proprio a queste atmosfere, tipiche dell’Impressionismo e del Simbolismo francese, si rifà il brano Distance de Fée di Takemitsu: composizione giovanile, ossia risalente al periodo in cui il musicista risentiva ancora del linguaggio del Primo Novecento, non è da denigrare per questa presunta “mancanza di originalità”, ma – anzi – è interessante proprio perché pur muovendo dallo stesso sentire che animò Debussy e Messiaen, va a caratterizzarsi in modo decisamente personale e in esso Takemitsu, proprio per non scadere nell’ovvio, studia soluzioni che lo portano ad essere più vicino alle istanze dei maestri del secondo Novecento, ad esempio con il fraseggio accidentato del violino e i giochi timbrici del pianoforte. Un’esecuzione particolarmente sentita da parte del duo, gravida di pause e attese, in cui la straordinaria musicalità dei due esecutori ha saputo creare un’interessante quanto sorprendente distanza prospettica tra le varie frasi, in un dialogo etereo che ben si confà allo spirito della natura presentato nel titolo.
Una simile distanza prospettica è ravvisabile anche nel brano successivo, Fratres di Arvo Pärt, nella versione per violino e pianoforte, con la cui esecuzione il duo (in particolar modo grazie al tocco di Katia Labèque) ha reso alla perfezione l’idea che sta alla base della filosofia musicale di Pärt, ossia il tintinnabulum, l’antico sonaglio a vento dei Romani. In effetti è questo la musica di Arvo Pärt: assistere allo spazio che si curva alle vibrazioni sonore, i cui echi riescono a toccare le profonde corde dell’uomo e a tenderle come cavi.

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Manoscritto autografo della seconda Sonata per violino e pianoforte di Maurice Ravel

Come conclusione di questo programma, in cui hanno indiscutibilmente dominato quelli che possiamo pacificamente definire dei “classici contemporanei”, la Sonata per violino e pianoforte n. 2 in sol maggiore di Maurice Ravel. Una composizione ricca di spirito e arguzie, piacevole sia per lo spettatore sia per l’esecutore. La tonalità, ossia sol maggiore, è quella tipica degli “esperimenti” di Ravel, come nel caso della Pavante  pour une infante défunte o del Concerto per pianoforte e orchestra, è la tonalità per mezzo di cui Ravel osa spingersi oltre i suoi limiti e, data la delusione causata dall’abbandono della Sonata per violino e pianoforte n. 1 (subito dopo il primo movimento), c’è da credere che scrivere per questa particolare formazione cameristica fosse per lui una vera sfida, ma intrapresa con una certa ironia: dalle quasi impercettibili ma folgoranti citazioni da Camille Saint-Saëns del primo movimento, allo spensierato divertissement del secondo (che non a caso è intitolato Blues), al Perpetuum mobile finale, in cui pianoforte e violino si provocano a vicenda, l’intima meditazione non smorza mai il sorriso. Una composizione di non facile esecuzione, soprattutto a causa della natura stessa della musica di Ravel, in cui tutto dev’essere calibrato colla massima attenzione, e che è andata a costituire il giusto coronamento per un concerto che ha raggiunto tali vette di perfezione tecnica ed espressiva e di cui – certamente – si parlerà ancora molto nella storica cornice dei Concerti della Normale.

Luca Fialdini

lfmusica@yahoo.com

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