La lotta per la dignità nel ghetto di Varsavia
0713142. Un numero può sancire, in certi casi, il valore che la vita assume; come quando ti viene tatuato sul braccio a ricordarti che, la tua esistenza, non è altro che un valore insito in una successione numerica infinita.
Joe Kubert non è americano, è polacco. I suoi genitori emigrarono da Yzeran, la loro città natale, negli anni Venti, quando una crescente crisi economica stava imperversando anche nelle zone rurali. Passarono per l’Inghilterra e poi, finalmente, fu loro concesso il visto per approdare nel Nuovo Mondo. Così il piccolo Joe crebbe nella Grande Mela, esternando sin da bambino un’innata predisposizione per il disegno che lo portò, a soli undici anni e mezzo, nel 1938, ad ottenere il suo primo lavoro retribuito che, peraltro, non avrebbe mai abbandonato.
Nel 1942, mentre Joe guadagnava più di suo padre (che era un macellaio Kosher), in Europa la gente veniva mandata nelle camere a gas e successivamente gettata nei forni crematori. Dopo la guerra, Joe cominciò a porsi domande del tipo: «what if?». Cioè: cosa sarebbe successo se i suoi genitori, nell’ormai lontano 1926, non avessero deiso di emigrare alla ricerca di fortuna? Probabilmente sarebbero stati anch’essi inghiottiti dal mostro mangia-uomini che mieté, a cavallo di sei anni, più di 6 milioni di vittime.
Nei suoi ricordi, Kubert, mantiene vividi i momenti in cui i genitori parlavano sottovoce con alcuni altri loro amici emigrati di nascosto, dopo aver visto ciò che accadeva nella Polonia occupata; erano discorsi che ai bambini non era consentito udire. Nonostante questo, il giovane Joe, ascoltava quei sibili rimpiattato dietro a una porta e allora sentiva parlare di quello che lui stesso attribuiva a delle «orribili favole» che, tuttavia, dopo la guerra si sarebbero rivelate essere qualcosa di ben più terribile. Si parlava di esecuzioni di massa, gente trucidata per le strade, bambini strappati in seno alla madre e poi fucilati, si parlava di campi di sterminio.
Oltre a questo, però, un giorno arrivò la notizia che qualcosa stava cambiando; nel ghetto di Varsavia aveva avuto inizio una rivolta. Per la prima volta gli ebrei, già organizzati da molto tempo, avevano dato vita a un’insurrezione di proporzioni gigantesche, la quale durò ben più di un mese, ma che poi si concluse a favore dei tedeschi. Naturalmente ciò causò sconcerto sia in Europa che in America; gli ebrei avevano deciso di combattere e lo avevano fatto con le poche armi a loro disposizione. Joe Kubert ne era stato profondamente colpito.
Proprio questo, unito a un profondo senso del dovere, ossia dover scrivere riguardo a quel trascorso che avrebbe potuto vederlo coinvolto, lo avrebbero portato a parlare di Yossel. Questi non è che un personaggio della fantasia di Kubert, nel quale certo si può notare un’accezione autobiografica.
Yossel ha quindici anni e sembra avere la stoffa per diventare un grande artista, un disegnatore di successo, tuttavia questo gli è impossibile nella Polonia occupata dai nazisti per i quali lui, in quanto ebreo, è un untermensch, un subumano, quindi non avente diritto neanche alla vita. Il giovane Yossel vive la sua spensieratezza nella Varsavia occupata senza curarsi delle restrizioni alla libertà che gli vengono imposte e, dopo un primo momento di paura di fronte a una nuova norma, torna con la mente ai suoi adorati fumetti.
La storia subisce una svolta quando, per ordine di Himmler, viene costituito un ghetto per gli ebrei nel cuore di Varsavia, il ghetto più grande del Governatorato Generale. Yossel e la sua famiglia, insieme con altre migliaia di persone, sono costretti a risiedervi in condizioni vitali disumane, che niente hanno di compatibile con la vita stessa. Nonostante questo terribile fardello, Yossel trova l’ispirazione per disegnare. Il racconto del giovane procede a intermittenza con quello di altri personaggi, come il rabbino fuggito dalla concentrazione, ma poi catturato ed impiccato; è suo il numero menzionato all’inizio dell’articolo. Yossel capisce che la sua vita non ha importanza in quell’universo dove tutto è regolato da un astruso sistema di cifre che occupa il posto di norma spettante all’identità dell’individuo; importante è invece lasciare una testimonianza di ciò che un essere umano è capace di fare per la propria sopravvivenza e quella del prossimo.
Questa graphic novel, volontariamente abbozzata con tavole al primo stadio, ovvero senza esser ripassate a china e con ancora le linee guida, rende perfettamente l’idea di cosa ha rappresentato la prima rivolta da parte di ebrei contro un nemico imbattibile, la lotta per la propria morte da conquistarsi con la dignità. Kubert si focalizza sull’importanza di questa parola con la frase «siamo pronti a morire come esseri umani», scritta in un volantino poi consegnato alle autorità germaniche.
Senza dubbio il lavoro di Joe Kubert, dettato prevalentemente dalle proprie origini, è la ricostruzione perfetta di un mondo che, per un periodo, è stato la materializzazione dell’imperfezione; un mondo che ha suggellato, con l’ausilio di teorie bislacche, il distacco netto tra esseri umani e dignità.
Nicola Di Nardo
- Yossel, 19 aprile 1943: cronache di una rivolta - 15 Giugno 2016
- L’artista Fernando Vallerini e il suo contributo alla “pisanità” - 14 Maggio 2016
- Alghero, l’immortale città marina e la tradizione rituale delle allades - 14 Maggio 2016